Il rosso di Polti è tornato in gruppo. Se n’è andato il giallo, ma è rimasto quel nome che si porta dietro successi e ricordi di una bella pagina di ciclismo italiano. Giuseppe Guerini con quella maglia ha corso per tre anni dal ’96 al ’98. Anni in cui è riuscito a conquistare una delle sue vittorie più belle, oltre che un terzo posto in classifica generale della corsa rosa. L’iconico successo di Selva Val Gardena davanti a Marco Pantani fa ancora parte del suo presente. Seppure siano passati 26 anni, la sua immagine di whatsapp (foto in apertura, ndr) vede proprio un’istantanea di quel momento. Dettagli che dimostrano quanto quel gruppo e quella squadra siano un ricordo felice. Attraverso le parole di Giuseppe siamo tornati a quei momenti per capire cosa rappresentasse per lui quella squadra che oggi in parte è tornata in gruppo con il nome di Polti-Kometa.
Come sei arrivato alla Polti?
Sono passato con Reverberi alla Navigare che mi ha permesso di entrare nel mondo dei pro’ e di farmi conoscere a livello nazionale. La Polti mi ha dato la possibilità di crescere, conoscere il Giro d’Italia alzando un po’ il mio livello nella gare, anche dal punto di vista atletico. Ho conosciuto parecchi corridori importanti, come Giannetti, Rebellin e Leblanc. Confrontarmi con loro, imparare da loro e cominciare ad avere risultati importanti.
Abbiamo notato che la tua immagine profilo di whatsapp vede te a braccia alzate con la maglia Polti…
Quella foto è un ricordo a cui sono molto legato perchè è la vittoria al Giro d’Italia davanti a Pantani. Quella fu uno dei due successi più importanti alla mia carriera. Era il ’98 ed era un po’ il simbolo di quel periodo. Il podio al Giro, la vittoria davanti a Pantani riassumono i miei primi sei anni da pro’. Da ragazzo italiano, il mio sogno era quello di poter vincere una tappa e si è poi concretizzato. Non a caso l’ho fatto con la Polti.
Che clima c’era alla Polti in quegli anni?
Io sono di Bergamo e la squadra aveva sede a Bergamo, quindi la maggior parte del personale era bergamasco, si parlava più dialetto che italiano con la squadra. Era una grande famiglia. Il manager Gianluigi Stanga era bravo a gestire i corridori e il personale e c’era questo modo di sentirsi uniti e protetti. Ma soprattutto c’era modo di poter crescere senza lo stress per forza di fare il risultato. Naturalmente c’erano pressione e l’obbligo di fare bene, però c’era anche la consapevolezza che se si sbagliava non ti mettevano alla porta. Si aveva la possibilità di recuperare e di rifarsi, magari in una gara successiva. Era il posto ideale e tranquillo per un giovane come me che trovava un ambiente in cui crescere.
Che rapporto hai avuto con Franco Polti in quegli anni?
Lui spesso veniva alle corse, era presente, soprattuto al Giro. Non influenzava mai le tattiche di gara, non era invasivo con i corridori. Però si vedeva che aveva questa passione per il ciclismo e la sua presenza non diventava pressione, ma la vedevamo più come una fiducia in noi.
Che compagni hai avuto in quei tre anni?
Con Rebellin ho avuto un ottimo rapporto. Ho fatto due anni insieme a lui. Mi ricordo quando ha messo prima la maglia rosa nel ’96. Poi c’erano Martinello, Leblanc, Gualdi, Celestino. Tanti corridori con cui ci si sentiva una famiglia. Ci si vedeva, si scherzava a tavola e anche dopo cena si facevano i nostri commenti anche col personale. Era un bel gruppo, simpatico, e si viveva il ciclismo in modo più leggero rispetto a quello che è oggi. Non esistevano i telefonini o le videochiamate. C’era ancora quel modo semplice di divertirsi e trovarsi tra di noi o anche con altre squadre. Ci aiutavamo tra di noi, si riusciva a capire subito quando qualcuno era in difficoltà.
Ricordi qualche aneddoto?
Ricordo ironicamente Daisuke Imanaka il primo giapponese a correre il Giro d’Italia: lo fece proprio con noi alla Polti. Era sempre un’avventura farsi raccontare le sue sofferenze, le sue impressioni durante le tappe. Era un po’ la nostra mascotte e non vedevamo l’ora di arrivare alla sera per ascoltare i suoi racconti.
Che dimensione internazionale aveva la Polti di quegli anni?
Non era tra le prime al mondo, però era sicuramente una squadra medio alta. Si puntava a vincere le classiche e a far bene anche nei Grandi Giri. Prima di me c’era stata la coppia Bugno e Gotti, dopo è ritornato Gotti. Nel frattempo c’era Leblanc, è arrivato Virenque l’anno successivo, per cui ci sono sempre stati grandi corridori, puntando a vincere sempre gare importanti. Alla presentazione della nuova Polti-Kometa, Stanga ha ribadito che in sei anni hanno vinto 110 gare, in palcoscenici importanti come Giro, Tour e Vuelta e prove di Coppa del mondo.
Veniamo ai giorni nostri. Per te che emozione è stata vedere tornare scritto su quelle maglie il nome Polti?
Fa molto piacere. Dispiace che l’Italia non abbia una squadra WorldTour e gli sponsor invece di investire nel ciclismo lo lasciano. Il ritorno di un brand importante come Polti è un bellissimo segnale ed è anche grazie a Francesca Polti che come suo padre vede ancora in questo sport dei valori importanti. Il ricordo dei momenti belli vissuti in quegli anni spero che siano di buon auspicio anche per questa nuova esperienza. Speriamo sia anche un segnale positivo per le altre aziende.
Una squadra di giovani. L’augurio è di seguire le tue orme con quella maglia?
Assolutamente. Quando sono passato ero un un buon corridore, con buone speranze, ma mai nessuno avrebbe immaginato che io potessi vincere una tappa al Giro e al Tour e conquistare il podio del Giro. C’è stata un’evoluzione continua. Merito, di Reverberi che mi ha dato spazio nei primi tre anni e di Stanga che mi ha fatto fatto crescere in quei tre anni che sono rimasto con lui. La nuova Polti-Kometa parte con questo team giovane, ma soprattutto vanta due profili come Basso e Contador, due riferimenti importantissimi per gli atleti. Hanno giovani di buone speranze e ottimi corridori a cui auguro di fare meglio di me. Spero che raggiungano livelli importanti e che si aprano sempre più porte nei Grandi Giri e nelle grandi classiche.