Pogacar e la stoffa dei campioni, l’opinione di Claudio Gregori

01.04.2025
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Alla Milano-Sanremo di dieci giorni fa Tadej Pogacar ha messo in scena l’ennesimo capolavoro di forza e fantasia, attaccando lì dove da anni si diceva non fosse più possibile farlo: sulla Cipressa. Il fatto che poi sia arrivato terzo è quasi un dettaglio, perché quell’attacco ha deciso la corsa. Ancora di più ha fatto al mondiale, con un attacco (quella volta vincente) partito a 101 km dal traguardo, in quello che chiunque ha giudicato in prima battuta come un azzardo eccessivo perfino per lui.

Ma forse Pogacar è un campione epocale proprio per questo, perché rende possibili cose che fino al momento prima parevano impossibili. Come fosse questa, ancora prima della densità del palmares, la cifra dei grandissimi. Ne abbiamo parlato con Claudio Gregori, forse l’ultimo grande cantore del ciclismo, che nei suoi libri ha raccontato le vite e le imprese di corridori leggendari come Coppi e Bartali, Bottecchia e Merckx. L’ultimo suo lavoro è “Il fiore che vola” sui i primi 100 anni del ciclismo a Pavia dai pionieri alla Sanremo, edito da Univers Edizioni.

Claudio Gregori, tra i suoi libri sul ciclismo ci sono le fondamentali biografie di Merckx e di Bottecchia
Claudio Gregori, tra i suoi libri sul ciclismo ci sono le fondamentali biografie di Merckx e di Bottecchia
Claudio, per trovare paragoni con Pogacar dobbiamo davvero scomodare Coppi e Merckx?

Pogacar è un fuoriclasse assoluto, anche se non ha ancora raggiunto i livelli di loro due. Lo dice il palmares, anche se non si possono mai confrontare epoche diverse, e poi Pogacar può ancora vincere molto. Di certo è eccezionale perché corre in maniera spettacolare, questo è sempre stato molto importante e lo è ancora di più nell’era della televisione. Il vero protagonista della Sanremo è stato lui, non Van der Poel, è lui che l’ha accesa e ne ha fatto una delle più belle Classicissime della storia. Pogacar è la punta del ciclismo moderno per due motivi. Il primo è che quando parte c’è sempre spettacolo, il secondo è che vince da gennaio fino al Lombardia. Non è Vingegaard che esprime al massimo solo in un periodo dell’anno.

In effetti Pogacar con suo modo di correre ha fatto innamorare un po’ tutti fin dalla Vuelta del 2019

Una volta Saronni mi ha detto: «Guarda, con Pogacar non fai il piano prima della gara, lui inventa la tattica in corsa». Ed è così, lui si sente e attacca a 100 km dalla fine, sembra una follia e invece lo porta a termine. Questo ovviamente accende l’immaginazione delle persone. E’ un momento eccezionale per il ciclismo, non c’è dubbio. Il problema per noi italiani è che non abbiamo campioni davvero competitivi. Ora c’è Ganna che ha fatto una bellissima Sanremo, adesso però deve vincere la Roubaix, io lo sto aspettando lì da 5 anni.

Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno
Una delle tre vittorie di tappa alla Vuelta 2019, dove molti scoprirono il talento dello sloveno
Hai parlato della Sanremo, per molti anni abbiamo sentito dire che attaccare dalla Cipressa fosse ormai impossibile, invece il campione del mondo ci ha provato e ci è riuscito. E’ questa la cifra del campione?

Lui ha cambiato le regole imposte negli ultimi decenni, cioè quelle dei giochi di squadra, della tattica pilotata dall’ammiraglia, dove non c’era più spazio per la fantasia. Ecco, lui ce l’ha messa, vive il ciclismo come avventura. Mentre negli anni scorsi le ammiraglie quell’avventura la sopprimevano.

E’ solo una questione di gambe o anche di testa?

Prima semplicemente non c’erano talenti per fare imprese del genere. Ho detto che non ha raggiunto Coppi e Merckx, ma sto parlando di campioni unici nella storia. E magari Coppi a fine carriera potrebbe pure raggiungerlo. Comunque contano le gambe ma anche la testa: infatti all’inizio Pogacar, come anche Van der Poel, attaccava e perdeva. Poi sono migliorati e ora fanno un ciclismo bellissimo, incredibile. Sarò ottimista, ma credo siano anche campioni di un ciclismo più pulito, in cui non vediamo più ronzini diventare purosangue. Ora i campioni veri emergono di più, e non a caso vincono tutto l’anno.

Merckx è ormai, assieme a Coppi, il metro di paragone per Pogacar
Merckx è ormai, assieme a Coppi, il metro di paragone per Pogacar
Hai parlato dell’importanza della televisione nelle imprese di Pogacar. Cos’è cambiato rispetto al passato per quanto riguarda il racconto del ciclismo?

Iniziamo a ricordare che Coppi era un campione unico, ancora più puro di Merckx. Coppi ha fatto 10 assoli più lunghi di 100 km, Merckx uno solo. La grande differenza è che gli assoli di Coppi non avevano copertura televisiva. Immaginiamoci se avessimo potuto vedere in diretta i 192 km di fuga alla leggendaria Cuneo-Pinerolo, con Bartali all’inseguimento per 5 colli. Sarebbe stato uno spettacolo indimenticabile. Allora c’era solo la radio, con il conduttore che faceva sognare le persone con poche parole.

Quindi Pogacar ha un vantaggio sotto questo aspetto?

Certo, un vantaggio eccezionale. Per esempio alla Strade Bianche abbiamo potuto goderci tutta l’epopea della caduta, della resurrezione e della vittoria. Una grande impresa, ma resa ancora più grande dalla diretta, perché un conto è leggere alcune cose, un altro è vederle coi propri occhi. La televisione regala immagini calde che ti invogliano a seguire, quando lo vedi scattare partecipi, ti emozioni e ti entusiasmi. Cosa che non ti può dare la lettura, per quanto ben fatta, che è un entusiasmo freddo. L’aspetto mediatico poi non è importante solo per i tifosi ma anche per il corridore, che sa di essere visto.

Ma non c’è solo Pogacar, viviamo un momento zeppo di grandi campioni, come Van der Poel e Van Aert
Ma non c’è solo Pogacar, viviamo un momento zeppo di grandi campioni, come Van der Poel e Van Aert
Accennavi prima al grande momento che sta vivendo il ciclismo. Siamo davvero nell’età dell’oro come a volte sentiamo dire? 

Sì, la paragonerei al momento a cavallo degli anni ‘40 e ‘50 in cui c’erano Coppi, Bartali, Van Steenbergen, Magni, Bobet, un germinare di campioni assoluti. Ma è così anche oggi, quando oltre a Pogacar abbiamo la fortuna di vedere all’opera corridori spettacolari come Van der Poel e Van Aert, ma anche Evenepoel, che secondo me sarà il grande avversario dello sloveno per i prossimi anni.

Tra pochi giorni lo vedremo anche alla Parigi-Roubaix, un altro tassello per avvicinarsi ai grandissimi

Non so se ha il fisico adatto per la Roubaix, forse quel pavé così sconnesso è più adatto a corridori più pesanti e potenti come Van der Poel e Van Aert. I 64 chili di Pogacar per quelle pietre mi sembrano un po’ pochini, ma spero di sbagliarmi. Perché con i grandi campioni non si sa mai.

Il Giro a Peonis, nella leggenda di Ottavio Bottecchia

24.05.2024
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Il primo traguardo volante di oggi, dopo 56 chilometri dalla partenza, è piazzato a Peonis, frazione di Trasaghis in provincia di Udine. Un paesino di duemila anime tra le sponde del Tagliamento e le prime propaggini montuose della Carnia. Perché RCS Sport ha scelto proprio Peonis? Forse perché lì, il 3 giugno 1927, fu trovato agonizzante Ottavio Bottecchia: il primo italiano a vincere il Tour de France, giusto cent’anni fa. Ma chi era davvero Ottavio Bottecchia, perché è stato così importante nella storia del ciclismo e perché, nonostante questo, è stato a lungo dimenticato?

Poche settimane fa ho avuto la fortuna di presentare ad una serata “Il corno di Orlando. Vita, morte e misteri di Ottavio Bottecchia” la monumentale biografia scritta nel 2017 da quello che è forse l’ultimo grande aedo del ciclismo italiano, Claudio Gregori. Quindi ho alzato il telefono e l’ho chiamato, per farmi raccontare direttamente da lui.

Claudio, perché Bottecchia è stato così importante?

Per questo basta ricordare tre numeri. Ha vinto due Tour de France come Coppi e Bartali, ma Bartali ha portato la maglia gialla 23 giorni, Coppi – il più grande corridore di sempre – 19. Bottecchia in maglia gialla ci è rimasto per 34 giorni! E nel 1924, anno della sua prima vittoria, dalla prima all’ultima tappa. Questo significa che al Tour non è stato solo l’italiano più vincente, ma anche il migliore.

E questo nonostante abbia gareggiato da professionista per pochissimi anni, dal 1922 al 1927.

Esatto, questo è fondamentale per capire il livello della sua grandezza. La carriera di Bartali è durata vent’anni, quella di Coppi quasi altrettanto, pur dovendo fare i conti con la Seconda Guerra Mondiale. Bottecchia invece ha corso davvero solo per quattro anni.

La sua vita è stata sempre segnata dal dolore, dalla miseria e dalla tragedia.

Veniva da un mondo umile, dove prima di tutto si doveva trovare il modo di guadagnare “schei” per andare avanti. E’ stato eroe di guerra, catturato tre volte e tre volte fuggito. Durante la rotta di Caporetto, si trovava vicino al Tagliamento a difendere la ritirata dei suoi commilitoni quando il suo battaglione è stato attaccato con l’iprite, il terribile gas usato in quegli anni. Lui è rimasto al suo posto, si è caricato la mitragliatrice da 50 chili sulle spalle e con quella teneva occupati i tedeschi.

Bottecchia rimase in maglia gialla per 34 giorni: 11 più di Bartali, 15 più di Coppi
Bottecchia rimase in maglia gialla per 34 giorni: 11 più di Bartali, 15 più di Coppi
Come è finita?

Quando ha sparato l’ultima pallottola, l’hanno catturato. Lui durante una marcia ha finto di cadere in un burrone e l’hanno lasciato lì. Così la mattina dopo si è ripresentato dai suoi compagni, riportando anche la mitragliatrice dicendo: «Ciò, l’è roba del Governo, no poteva miga lasarla là». Dopo la guerra è stato ricoverato per la malaria e per le conseguenze dell’esposizione all’iprite. Poi si è rotto la clavicola, ha dovuto affrontare la morte della primogenita… Insomma, Bottecchia ha sempre dovuto duellare con il dolore, ancora prima che con gli avversari. Basti pensare che portava a casa alla moglie il rifornimento che gli davano alle corse.

E in tutto questo è stato il primo corridore italiano a vincere il Tour de France. Come ci è riuscito?

Con la perseveranza e la fame. Dopo il Giro del 1923, in cui corse da “isolato” e si fece notare arrivando 5° in classifica generale, fu ingaggiato dalla squadra francese Automoto per il Tour dello stesso anno. Doveva aiutare il suo capitano Henri Pélissier, ma si trovò in maglia gialla. Prima della 10ª tappa aveva oltre 12’ di vantaggio sul secondo, Alavoine, e quasi mezz’ora sul terzo, proprio Pélissier. Ma in quella frazione, la Nizza-Briançon, fu vittima di una congiura. Gli misero del lassativo nella borraccia. Così Bottecchia visse una via crucis che al traguardo gli costò 41’ di ritardo sul vincitore e, naturalmente, la maglia gialla.

E chi fu il vincitore quel giorno?

Henri Pélissier, il suo capitano. In questo modo Automoto al termine del Tour fece 1° e 2° in classifica generale. I francesi erano contenti e, tutto sommato, anche Bottecchia. Perché tornò dalla Francia con un contratto principesco per i tre anni successivi, che pose fine ai famosi problemi di schei. E in più la promessa di poter correre da capitano unico. Infatti nel 1924 indossò la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, poi vinse anche il Tour del 1925.

Nell’antica mola della frazione di San Martino, dove Bottecchia nacque nel 1894, sorge ora un museo a lui dedicato
Nell’antica mola della frazione di San Martino, dove Bottecchia nacque nel 1894, sorge ora un museo a lui dedicato
Bottecchia è rimasto famoso anche per la sua morte, un mistero tuttora irrisolto. Cosa successe quella mattina a Peonis?

Di certo c’è solo che la mattina del 3 giugno 1927 fu trovato ferito e incosciente da un gruppo di contadini sulla strada di Peonis, zona in cui si allenava abitualmente. Lo caricarono su un carro e lo portarono all’ospedale di Gemona, dove i medici riscontrarono due fratture al cranio oltre ad altre ferite meno gravi. Morì il 15 giugno dopo 12 giorni di agonia. Ci sono almeno venti versioni diverse e io nel mio libro le vaglio tutte. Dall’aggressione fascista ad una vendetta legata a giri di scommesse, dal malore alla caduta accidentale. La mia tesi è questa: il mistero si accompagna bene a Bottecchia, lo ingigantisce, lo esalta. Perché lui non appartiene alla storia, ma alla leggenda.