«Occhi aperti su Zoccarato – disse Visconti qualche giorno fa – è un cavallo pazzo. Scatta sempre a tutta. Ti fa morire dalle risate. E’ capace di partire a 40 dall’arrivo e di rilanciare in pianura a 60 all’ora. E’ un mulo, in futuro lo vedrei bene alla Deceuninck-Quick Step al Nord».
Un’investitura bella e buona, che non poteva passare inosservata. Abbastanza per suonare alla porta di Zoccarato, padovano classe 1998, che avevamo lasciato lo scorso anno al Team Colpack dopo una stagione interessante e coronata dal terzo posto nel tappone di Aprica, l’ultimo, al Giro d’Italia U23.
«A un certo punto sul Mortirolo ho anche pensato di staccare Pidcock – dice – ma è durato poco. Avevamo ripreso Aleotti che non stava tanto bene e quando l’altro se ne è andato, io ho continuato col mio passo. Tappe di quel tipo, con le salite da fare regolari e con un bel vantaggio da amministrare, possono essere buone per me...».
Ma qui il punto è quello che ha detto Visconti: ti ritrovi nella descrizione?
Forse sì (ride, ndr) per il mio modo di correre, sto bene dove c’è bisogno di sprecare energie. Fra i dilettanti in Italia non mi trovavo per questo. C’era da limare tutto il giorno e poi la corsa si risolveva con una fiammata nel finale. Infatti appena sono passato alla Iam, sono bastate 3-4 corse con i professionisti per capire che avevo trovato il mio ambiente.
Sei stato in Svizzera per un solo anno, dopo la General Store e prima della Colpack: che esperienza è stata?
Bella per la qualità delle corse. Sono riuscito a fare un calendario importante, gare con ritmi superiori e un diverso modo di correre in base ai Paesi. In Francia scattavano tutto il giorno, il Spagna si stava sempre in gruppo ma a velocità pazzesche. E’ stata un’esperienza molto utile, ma il mio obiettivo era passare professionista e per questo ho accettato la proposta della Colpack, di cui mi avevano sempre parlato bene. Poi l’anno è stato strano a causa del Covid e di fatto all’estero abbiamo corso pochissimo.
Ma al professionismo ci sei arrivato lo stesso.
E mi sento molto a mio agio, anche grazie alla squadra: la Bardiani-Csf. Non ho grosse pressioni, posso fare la mia corsa e quando serve, lavoro per i compagni. Anche questo ti fa sentire importante.
Aver corso in continental ti ha aiutato nell’adattarti al professionismo?
Mi sono inserito meglio e più velocemente. E’ molto importante avere un processo di crescita lento, poter fare prima qualche esperienza fra i più grandi. Oltre a capire come si muovono, inizi a fare dei fuorigiri che da under 23 non faresti mai. Anche soltanto provare a tenere duro nei momenti caldi, ti porta a dare una tantum quel 110 per cento che sarebbe sbagliato rincorrere tutti i giorni.
Che cosa significa che corri come un mulo e che andresti meglio al Nord?
Che non ho mai avuto paura di attaccare e prendere vento. Dipende tutto da quello che vuoi fare. Andare in fuga da pro’ è più facile che da U23, per contro le occasioni di andare all’arrivo non sono tante. La fuga mi piace. Quando ero allievo mi dicevano: «E’ meglio correre facendosi vedere, che stare nascosto ed essere anonimo».
Sai che questo modo di essere ti ha apertole porte del Giro al primo anno da pro’?
Sapevo che fosse difficile essere selezionato, anche perché meritarsi un posto è una gara all’interno della stessa squadra. Da inizio stagione ho sempre fatto vedere qualcosa, posso fare comodo con le mie fughe. Il rischio di arrivarci stanchi purtroppo c’è. Non ho mai fatto una corsa così, ovviamente. Mi piacerebbe entrare in una di quelle fughe che fanno fatica a prendere. La paura è fare un giorno da leone e scoprire che il giorno dopo ci sono 200 chilometri con 5.000 metri di dislivello. Diciamo che aver fatto il Turchia e subito dopo la gara in Serbia mi ha permesso di sommare tanti giorni, di avere un piccolo assaggio.
Che cosa hai fatto dopo la Serbia?
Sono tornato a casa e ho recuperato. Ieri ho corso il Circuito del Porto e adesso si prepara la valigia, scaricando un po’ e concentrandomi sull’alimentazione senza pensarci troppo. Non ci crederete, ma l’idea di debuttare al Giro d’Italia già al primo anno è pesante psicologicamente.