«Abbiamo scelto Elia Viviani e Jessica Rossi perché sono due medaglie d’oro olimpiche che rappresentano due sport che hanno portato quasi 100 medaglie all’Italia dal 1896 ad oggi, eppure non avevano mai avuto un portabandiera alle Olimpiadi». Le parole del presidente del Coni Giovanni Malagò sintetizzano al meglio la portata della scelta che, oltre alla specialista del tiro a volo, ha premiato lo sprinter veneto, oro a Rio 2016 nell’Omnium.
Mai nella sua storia il ciclismo aveva avuto un proprio rappresentante come portabandiera, il che è incredibile considerando che stiamo parlando della seconda disciplina sportiva per numero di medaglie olimpiche, superata solo da quella scherma considerata da sempre il “serbatoio” di allori italiani.
Eppure altri sport hanno avuto maggiore presenza sul palcoscenico della cerimonia d’apertura, spesso per merito della fama dei campioni scelti (basti pensare a Sara Simeoni, Pietro Mennea o a Federica Pellegrini, ultima nostra portabandiera), qualche volta anche per mandare un messaggio sociale forte (vedi la scelta di Carlton Myers a Sydney 2000 come espressione di un’Italia più integrata).
Tanti Paesi ancora all’asciutto
Se allarghiamo un po’ il discorso, ci accorgiamo però che il ciclismo ha sempre avuto poca considerazione in sede olimpica: contando tutti i 213 Paesi che fanno o hanno fatto parte del Cio, il totale dei portabandiera legati al ciclismo prima di Viviani è appena di 42. Ci sono nazioni come Belgio, Olanda, Germania, Spagna che non hanno mai portato un proprio atleta a sventolare il vessillo nazionale. Com’è possibile questo?
Probabilmente molto ha influito il fatto che il ciclismo professionistico è stato escluso dai Giochi fino al 1996. Chi otteneva risultati di spicco era destinato a passare pro e quindi a lasciare l’ambiente olimpico, ad eccezione dei Paesi del blocco comunista dove il ciclismo non era uno sport di spicco.
Le stelle della pista
Eppure alcuni nomi importanti vanno menzionati: nel 1976 la Francia affidò il tricolore a Daniel Morelon, uno dei più grandi sprinter su pista della storia (3 ori olimpici fra il 1968 e il ’72), che curiosamente proprio per il suo amore per la pista e l’agone olimpico rifiutò di passare professionista se non nel 1980, a 36 anni, togliendosi lo sfizio di vincere il titolo europeo e conquistare due medaglie mondiali.
A Chris Hoy venne addirittura concesso di portare la bandiera nella cerimonia dei Giochi di casa, nel 2012, l’onore più ambito da ogni sportivo britannico. Al tempo Hoy, già insignito del titolo di “baronetto”, aveva vinto 4 titoli olimpici su pista, ma a Londra ne conquistò altri due, completando una carriera straordinaria.
Un solo precedente su strada
La pista è la specialità che più è stata “vista” al fine di eleggere i portabandiera, ma è curioso il fatto che altre discipline più “giovani”, come Bmx e Mtb, siano state premiate più del ciclismo su strada. A ben guardare, prima di Viviani solamente un altro professionista di un certo nome aveva avuto questo onore: fu nel 2016 il bielorusso Vasil Kiryenka, vincitore del titolo mondiale a cronometro nel 2015 e a lungo membro del Team Sky fino allo scorso anno.
Per questo la scelta di Viviani è davvero un evento storico e il veronese ne è consapevole: «Tokyo parte come meglio non si potrebbe – ha affermato alla partenza della tappa del Giro da Ravenna – neanche posso immaginare che emozione sarà. Poi per fortuna avrò tempo per smaltire le emozioni e preparare le gare, perché chi porta la bandiera ha un ruolo guida, deve essere d’esempio e portare medaglie. Io ci proverò». Se ci riuscirà, avrà un significato ancora più profondo, come per Chechi ad Atene 2004 o la Vezzali a Londra 2012.