Villa al Tour du Rwanda, qualcosa di davvero inaspettato

03.03.2024
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Nove ore di viaggio. Non verso l’altra parte dell’Atlantico, ma scendendo sempre più il Pianeta in senso longitudinale, giù giù fino al Rwanda. Per Giacomo Villa la partecipazione al Tour locale è stata un’autentica esperienza: la prima fuori dall’Europa, ma anche la prima gara a tappe nel nuovo team, la Bingoal WB, che ne ha subito fatto uno dei suoi alfieri.

La corsa africana aveva alla partenza 4 team professional, 6 nazionali e diverse continental (foto Tour du Rwanda)
La corsa africana aveva alla partenza 4 team professional, 6 nazionali e diverse continental (foto Tour du Rwanda)

Una trasferta difficile, in un Paese che si sta sempre più abituando alle due ruote agonistiche e che il prossimo anno arriverà addirittura ad ospitare i campionati mondiali. Il racconto di Villa parte proprio da questa constatazione, il confronto tra quel che sarà e la realtà attuale: «Non è facile organizzarsi, non è una gara come quelle a cui siamo abituati. La trasferta intanto è lunga e non si assorbe facilmente. Poi bisogna partire dal presupposto che si gareggia in un luogo molto diverso dai soliti, dove bisogna abituarsi allo stile di vita del posto, dove i ritmi sono più compassati, dove bisogna anche sapersi adattare. Se dovessi dire a mente fredda, è una bellissima esperienza, ma anche difficile».

Che cosa ti ha colpito di più?

Il grande calore del pubblico. Me ne sono accorto sin dalla prima tappa: a un certo punto ai bordi della strada trovavamo tanta gente festante e continuava così per 2 chilometri fino al passaggio nel paese e così ancora per altri 2 chilometri. Non capita così spesso da noi, se non per le grandi tappe di Giro e Tour. Ma il bello era che la gente si arrampicava sui pali o sui muri per assistere al nostro passaggio. Poi le scuole: 200-300 bambini che urlavano entusiasti. E’ qualcosa che mi è rimasto nel cuore.

Villa con i compagni di team, i belgi Meens, Teugels e Van Poppel e il danese Salby
Villa con i compagni di team, i belgi Meens, Teugels e Van Poppel e il danese Salby
I percorsi come ti sono sembrati?

Già quando si è nella Capitale, si sta a 1.500 metri di altezza e tutti i percorsi sono contraddistinti dall’altura, si toccano anche i 2.500 metri. Nella terza tappa ad esempio non si è mai scesi sotto i 1.800 metri. Di pianura ce n’è davvero poca, sono tutti saliscendi per lo più con pendenze molto morbide, 4-5 per cento.

Di gente in bici ne avete vista?

Tantissimi, nel senso che la bici è vista come il principale mezzo di spostamento, utilizzata addirittura come taxi o anche per trasportare tante materie prime. Tanto che ci chiedevamo come facessero a portare quei carichi… Dal punto di vista sportivo ho l’impressione che il ciclismo sia ancora considerato uno sport di nicchia: c’era la nazionale e un team locale, ma non c’è ancora quello sviluppo che ci si attenderebbe. Ogni tanto però si vedeva qualche ragazzino con la bici e una maglia di qualche vecchia squadra.

Tantissima gente ai bordi delle strade, il Paese si sta sempre più sensibilizzando verso il ciclismo (foto Tour du Rwanda)
Tantissima gente ai bordi delle strade, il Paese si sta sempre più sensibilizzando verso il ciclismo (foto Tour du Rwanda)
Veniamo all’aspetto agonistico: per te era la prima esperienza con la squadra belga?

Avevo già gareggiato a La Marseillaise, ma questa era la prima corsa a tappe con loro. Mi sono trovato bene, con i compagni stiamo legando molto superando anche il problema della comunicazione, con un misto di inglese e francese ci intendiamo bene tutti quanti. E’ un team professional che quindi deve fare i conti con il ranking Uci, c’è una caccia ai punti che contraddistingue tutta la nostra attività e credo di aver dato il mio contributo con qualche buon piazzamento.

L’inizio non è stato semplice, con l’11° posto nella cronosquadre.

Lì si vede la differenza di mezzi a disposizione. Ci siamo trovati ad affrontare formazioni che avevano potuto portare con sé anche le bici da crono, noi invece avevamo solamente quelle da strada e quindi eravamo svantaggiati. Per fortuna la cronosquadre contava solamente per la classifica dei team, il Tour vero e proprio è iniziato il giorno dopo.

La volata della quarta tappa vinta da Lecerf, Villa (in giallo) è quarto (foto Tour du Rwanda)
La volata della quarta tappa vinta da Lecerf, Villa (in giallo) è quarto (foto Tour du Rwanda)
Per buona parte della corsa sei stato anche in predicato di dare l’assalto alla Top 10…

Fino alla quarta tappa sono sempre stato nei primi 10, poi è arrivata la cronometro di 13 chilometri, ma tutta fra i 1.800 e i 2.300 metri di altitudine: bella tosta proprio per questo aspetto. Era come gareggiare a Livigno, se non sei abituato paghi. Io comunque ho chiuso 27°, ma il giorno dopo ho avuto problemi di stomaco e arrivato sull’ultima salita sentivo le gambe vuote. A quel punto la classifica è andata.

Dopo questa lunga trasferta che cosa ti attende?

Domenica (oggi, ndr) sarò al GP Jean Pierre Monseré in Belgio, poi dovrei seguire la stagione italiana con Milano-Torino, la Settimana Coppi e Bartali, il neonato Giro dell’Abruzzo. La mia speranza è di ricavarmi un posto per una delle Classiche, se vado forte potrei entrare nel roster per Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi e per me sarebbe un grande successo. Infatti sto puntando la Coppi e Bartali dove voglio fare risultato.

Il britannico della Israel Premier Tech Joseph Blackmore, vincitore della corsa africana (foto Tour du Rwanda)
Il britannico della Israel Premier Tech Joseph Blackmore, vincitore della corsa africana (foto Tour du Rwanda)
Come ti stai trovando avendo dovuto cambiare tutto?

Sì, è un cambiamento profondo e me ne sto accorgendo sempre di più. Prima alla Biesse Carrera avevo tutto a portata di mano, ad esempio il diesse Nicoletti abita proprio vicino a me ed era un costante punto di riferimento. Ora mi muovo sempre da solo, gli spostamenti sono con l’aereo. Inoltre bisogna ragionare molto come squadra, inquadrando gli obiettivi del team che sono incentrati sull’ottenimento di più punti possibile. Per la Bingoal poi il target, anche per i rapporti con gli sponsor, sono le classiche e bisogna lavorare per quelle. Per questo per me esserci significherebbe tantissimo in questo primo anno.