Quassù c’è qualcosa di magico. Forse è la leggenda delle ragazze che 400 anni fa si lasciarono annegare nel lago per sfuggire agli stupri dei mercenari svedesi durante la Guerra dei Trent’anni. Oppure è la storia di destini che si incrociano a La Planche des Belles Filles e raccontano storie di corsa.
Anche in questo giorno caldo di grandi attese mantenute, uomini di valore si sono arrampicati portando con sé ricordi e missioni da compiere. Solo uno è riuscito a mantenere il voto dichiarato ieri dopo la vittoria di Longwy, ma stavolta ha dovuto stringere i denti contro il giovane Vingegaard che già sul Mont Ventoux lo guardò negli occhi senza timori. Anche lui lo ha fissato nel momento di passarlo, si esercita così la pressione del leader. Sugli altri è calato lo stesso silenzio di quel giorno crudele, quando le ragazze di Plancher les Mines scelsero una morte dignitosa per sfuggire a una ben più terribile.
Sfinito dopo l’arrivo, Pogacar ha dovuto sudarsi la vittoria più del solito Queste scarpe speciali by DMT nel giorno del lancio della sua fondazione per la ricerca sul cancro
Ritorno sul luogo del delitto
Qui Pogacar spodestò Roglic e chissà se nella sua determinazione di vincere sia passata anche la voglia di dimostrare che non fu per la fortuna. C’era la sua famiglia, c’erano motivazioni speciali, ma per vincere ha dovuto pescare nella tasca dell’orgoglio.
«Da quando è stato annunciato il percorso – ha detto – ho voluto vincere quassù. Vingegaard è stato davvero forte. Ha corso alla grande, ma io non potevo rinunciare. Per Urska al traguardo, per la mia famiglia ai piedi della salita, per la mia squadra che ha lavorato così duramente. Ho dovuto davvero spingere a fondo per superarlo. Questa è una vittoria molto speciale. Anche perché oggi abbiamo lanciato una fondazione per la ricerca sul cancro. Per questo ho indossato per la prima volta queste scarpe speciali».
Un avversario vero
Ma forse stavolta Tadej potrebbe aver trovato un degno avversario. Quantomeno uno che non ha paura di sfidarlo in campo aperto, comunque andrà a finire.
«E’ stato sicuramente un finale brutale – racconta il giovane danese della Jumbo Visma, l’unico a non avere conti aperti con la Planche, ma avendone appena aperto uno – ma penso di poter essere felice. Ci ho provato, ma sono arrivato a 20 metri dalla fine e poi basta. Ero davvero vicino al traguardo e ora spero di stare meglio sulle salite più lunghe. Le gambe hanno risposto bene quindi sono felice».
Pogacar lo ha definito il miglior scalatore al mondo circondato da una squadra fortissima. Il danese sorride e si dirige verso il bus. Per oggi altro da dire non ce l’ha.
La risposta delle gambe
Roglic ha preferito dire poche parole, lasciando che a dare il suo messaggio fossero le gambe. Il terzo posto a 14 secondi da Pogacar dice che forse le botte dei giorni scorsi si stanno assorbendo e che altre montagne potrebbero diventare sue amiche. Chissà se salendo ha riconosciuto qualche scorcio di quel giorno in cui aveva gli occhi sbarrati e la vita contro.
«Sapevo cosa stava succedendo – ha detto alla partenza – ma non potevo più spingere. Stavo lottando contro me stesso per ogni metro. Oggi non sapevo cosa aspettarmi. Ho abbastanza esperienza dopo le cadute. Ogni spinta del pedale è come un coltello che mi taglia la schiena. Mi fa male la parte bassa, ma non sono qui per piangere, sono qui per combattere».
La Planche questa volta non lo ha respinto e chissà che non cedendo al forcing del giovane connazionale non abbia ritrovato la fiducia che sprofondò con lui nel lago quel giorno.
Teuns e Ciccone, deja vu
Curiosamente nella fuga si sono ritrovati i due uomini che se la giocarono nel 2019. Teuns vincendo la tappa, Ciccone prendendo la maglia gialla.
«Avevo già previsto questo scenario ieri sera – ha detto il belga del Team Bahrain Victorious – sapevo che c’erano buone possibilità che Pogacar volesse vincere oggi e alla fine è andata così. Ho capito presto che non saremmo riusciti ad arrivare alla fine. Se il gruppo ti concede solo un massimo di due minuti e mezzo, sai che hai poche possibilità. Sulla salita finale, Kamna era chiaramente anche il più forte. Ma per me ci sono ancora molte opportunità in questo Tour».
Forse è stato per questo senso di impotenza che Ciccone a un certo punto ha preferito mollare?
«Era una tappa adatta agli attacchi quindi ci ho provato. Il fatto che fosse una salita che aveva già detto qualcosa di importante cambiava poco. Quando sei lì per giocartela, ogni salita più o meno diventa uguale. La fatica è quella, neanche me la ricordavo benissimo».
Teuns è arrivato a 3’52”, Ciccone a 16’30”. Si fa così quando si vuole entrare liberamente nelle fughe. Ma forse l’abruzzese non ha ancora ritrovato la gamba di fine Giro.
Dieci anni così lunghi
Parlando davanti al bus grazie ai buoni uffici del suo addetto stampa, Chris Froome ieri aveva sorriso ripensando alla salita che nel 2012, giusto 10 anni fa, gli portò la prima vittoria di tappa, in quel Tour di tensioni che fu poi vinto da Wiggins.
«Ho dei bei ricordi del 2012 – ha detto – in quel Tour fu anche la prima occasione per misurare la mia condizione e credo che sarà così anche domani. Mi aspetto che gli scalatori cercheranno di recuperare il terreno perso nella crono, per poi cominciare una rimonta nei giorni successivi. Alcuni dei miei rivali cercheranno di recuperare tempo e di passare all’offensiva sin da domenica».
Ha concluso prevedendo distacchi contenuti fra i primi del Tour. Quei dieci anni non sono stati facili da colmare, ma l’esperienza ha visto giusto. Froome è arrivato a 3’48” da Pogacar, in questo primo Tour senza i legacci dell’infortunio, rincorrendo le sensazioni del campione che fu. Sapremo nei prossimi giorni quanto il tempo avrà scavato a fondo. E per fortuna non ci sarà da aspettare troppo.