Quando Guillaume Martin parla, le sue affermazioni non sono mai banali. Il corridore della Cofidis, uno dei leader del team WorldTour transalpino, è considerato il filosofo del gruppo e ha già pubblicato due libri, Socrate à vélo e La Société du peloton, dove unisce il ciclismo a considerazioni che vanno ben al di là del mondo a due ruote. Avvicinato dai giornalisti di Reporterre, media che si occupa della tutela dell’ambiente, ha rilasciato alcune affermazioni molto critiche sul suo mondo, dando anche un quadro fosco sul futuro.
Nella sua disamina, Martin parte da un ricordo: «La Vuelta del 2021 mi ha fatto molto pensare. Conclusi quel giro al 9° posto, a dispetto di un forte dolore costale e sacrale, ma non è questo il punto. Per molti giorni abbiamo pedalato in un clima che definire torrido è poco: per ore pedalavamo con temperature costantemente sopra i 33° e in una tappa, mentre salivamo in quota, il tachimetro diceva sempre 39°. Le autorità consigliavano alla popolazione di non uscire di casa, eppure noi eravamo lì, nelle ore più calde, a svolgere sforzi estremi. Aveva senso?».
I tempi stanno cambiando
Su quell’esperienza, il 29enne parigino ha ragionato, basandosi anche sulle gare di quest’anno: «Viviamo un rapido degrado ecologico e ambientale, le temperature stanno salendo e questo non potrà non pesare sullo sport. Io non sono sicuro che ancora a lungo si potrà prevedere il Tour così com’è strutturato nel mese di luglio e lo stesso dicasi per la Vuelta. Si mette a rischio la salute dei corridori, ma anche di chi segue il ciclismo sulle strade e rimane sotto il sole cocente per ore. Io penso sempre che la nostra sia un’attività da considerare come una forma di lusso, non essenziale».
Quest’ultima affermazione potrebbe sembrare azzardata e in effetti lo è, perché Martin sotto certi aspetti non dà il giusto peso all’attività sportiva sia come elemento di benessere fisico, sia come valore d’intrattenimento, ma nella sua analisi il “filosofo” francese prescinde da queste considerazioni e motiva la sua presa di posizione più in tema con l’ambiente: «La bici è un mezzo ecologico? Sì. Il ciclismo agonistico ad alto livello è uno sport ecologico? No…
Il problema dei mezzi a motore
«La mia vita è esemplare in tal senso: trascorro da 200 a 250 giorni fuori da casa e il mezzo principale di spostamento è l’aereo, perché consente di risparmiare più tempo di recupero necessario per le prestazioni e sono le migliori o peggiori prestazioni a misurare il nostro valore e quindi il nostro sostentamento. Quindi il mio stile di vita – forzato – è più inquinante di quello di un cittadino medio».
Il transalpino va anche oltre: «Guardate in ogni gara ciclistica quanti sono i mezzi motorizzati al seguito e quanto consumano, quanto inquinano. E i rifornimenti? Quanti prodotti sono avvolti nella plastica? Cerchiamo di non sporcare le strade con gli scarti, questo è vero, ma molto meglio sarebbe prescindere da prodotti inquinanti. Io in allenamento cerco di preparare i miei rifornimenti da solo, ma in gara è impossibile».
Un ambiente logorante
Si fa abbastanza per rendere gli eventi più ecologicamente sostenibili? Martin prova a dare qualche soluzione: «Dovremmo usare di più il treno per gli spostamenti e i mezzi elettrici per il seguito, ma è un processo in itinere, siamo ancora ai primi passi. Io credo che anche questi ragionamenti influiscano sullo stato generale del nostro movimento, che è florido. Molti miei colleghi non ce la fanno più, vivere in un ambiente con altissime aspettative, dove sei costretto a superare sempre i tuoi limiti è logorante. Non è solo Dumoulin che di fronte alla depressione ha alzato bandiera bianca, in tanti lo hanno fatto».
Qual è allora il futuro delle grandi competizioni sportive? «Intanto sono momento di discussione e riflessione. Molto si parla dei mondiali di calcio in Qatar e della loro opportunità in un Paese dove non si rispettano i diritti umani e lo stesso era stato per i Giochi Invernali di Pechino. Solo che bisognerebbe fare prima questi discorsi, non dopo. Da questo punto di vista il ciclismo vive un’epoca positiva: si sta globalizzando, le nazioni del Sud America vivono un ruolo importante e quelle africane anche. E’ però arrivato il momento di rivedere il modo di organizzare gli eventi: abbiamo davvero bisogno di tante macchine in una gara ciclistica?».
Collaborare, nel ciclismo e non solo
Nell’intervista, Martin conclude con un complesso ragionamento prendendo spunto da un passaggio del suo ultimo libro: «Ho tracciato un parallelo con il modo in cui i funghi micorrizici entrano in simbiosi con gli alberi, di cui colonizzano le radici. L’albero fornisce al fungo zuccheri dalla fotosintesi, mentre il fungo fornisce all’albero sostanze nutritive. Questo mutuo scambio lo vediamo anche nel ciclismo: prendiamo il caso di una fuga. Quando si collabora, tra corridori di squadre diverse, la fuga va fino in fondo. Ma se un corridore è riluttante a subentrare, il gioco non funziona. Di fronte alla crisi ecologica, noi spesso siamo come questo corridore recalcitrante che privilegia il proprio interesse, senza vedere che questo danneggia l’intera comunità e anche se stesso, alla fine».