Qualche giorno fa Pietro Caucchioli sottolineava un aspetto del Tour appena concluso: i grandi protagonisti Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar hanno entrambi avuto un luogotenente americano, rispettivamente Sepp Kuss e Brandon McNulty (i quattro nella foto di apertura CorVos). Un sintomo abbastanza evidente della ripresa del ciclismo a stelle e strisce. Guardando la classifica del Tour si scopre che il discorso è ben più ampio.
In un Tour che alla resa dei conti si è dimostrato alquanto selettivo ci sono stati ben 4 corridori statunitensi che si sono piazzati fra il 13° e il 21° posto: Powless, proprio Kuss e McNulty e, last but not least, il giovane e sempre più promettente Matteo Jorgenson. Se consideriamo che il primo italiano è stato Simone Velasco al 31° posto è evidente come il ciclismo americano sia su una lenta ma sicura via di ripresa.
Per Brandon un podio e tanta amarezza
Osservando le tappe, la sensazione è che i due in questione, inquadrati in rigidi schemi di squadra, avrebbero potuto ottenere molto di più. Fra le pieghe delle loro dichiarazioni emerge un certo disagio. Lo ha sottolineato soprattutto McNulty raccontando a modo suo la tappa di Peyragudes. Quella del terzo successo parziale di Pogacar ma anche della strenua difesa di Vingegaard: «All’inizio della salita di Val Louron il piano era che tirassi a tutta per 15 minuti. Vedendo che tanti cedevano, ho lavorato molto di più.
«A 5 chilometri dalla conclusione – prosegue lo statunitense dell’Uae Team Emirates – ho sperato sinceramente che Jonas e Tadej, non potendo ormai cambiare molto in termini di classifica, mi lasciassero vincere, ma non ci sono regali in questo sport. Mi sono dovuto accontentare del numero rosso per la combattività…».
A poco sono valse le parole di stima espresse da Pogacar al termine della vittoriosa frazione: «Brandon è una vera “bestia”. Ha fatto un lavoro meraviglioso. Era davvero in forma, è andato bene per tutto il Tour ma questa volta è stato speciale».
Un americano sempre disponibile
Dall’altra parte Kuss si è confermato uomo di estrema affidabilità, ma senza quella libertà che lo scorso anno gli aveva consentito di vincere una tappa. Alla Jumbo Visma l’americano di Durango (McNulty è di Phoenix) è considerato una colonna. Un uomo che mette da parte le ambizioni personali per coerenza, per essere sempre lì quando c’è bisogno, costante al fianco del leader. Rispetto allo scorso anno però è stato un Tour diverso, nel quale gli addii prematuri di Roglic e Kruijswijk hanno fatto cadere sulle sue spalle un surplus di responsabilità.
Kuss però non è uomo da lamentarsi, né da tirarsi indietro rispetto alle sue responsabilità. Un aneddoto curioso è capitato proprio nei giorni più caldi (e non solo meteorologicamente) della Grande Boucle. L’addetto stampa della Jumbo Visma voleva preservarlo dalle domande dei giornalisti, consigliandogli di andare subito a farsi la doccia passando oltre microfoni e taccuini. Sepp invece si è sempre fermato di buon grado, accettando l’aggravio di impegni dopo le dure tappe francesi.
Encomiabile anche se non al massimo
Come McNulty, Kuss c’è sempre, al fianco del capitano, svolgendo il suo ruolo di pesce pilota anche quando le cose non vanno. «A volte non vivo i miei giorni migliori – ha affermato il corridore del Colorado – ma non lo dico e do sempre il mio massimo, ci metto tutto quel che ho perché voglio esserci nei momenti importanti». E in certi momenti è stato davvero fondamentale. Era quella chiave che Pogacar non riusciva a scardinare, scivolando verso tattiche disperate: «Le montagne a volte sono più semplici di quanto si pensi – rispondeva a chi gli chiedeva conto del suo ritmo indiavolato, che teneva Vingegaard sempre a galla – Alla fine si tratta solo di chi ne ha di più».
Il danno dell’era Armstrong
Molti, guardando la classifica di cui sopra, gli hanno chiesto conto della situazione attuale del ciclismo americano soprattutto in raffronto al suo contro verso passato e le parole di Kuss sono state taglienti, quasi risentite: «Quando ho vinto una tappa al Tour ho ricevuto più attenzioni di quante mi aspettassi. Il ciclismo è un piccolo mondo anche se a chi c’è dentro non pare e per noi che veniamo da oltreoceano lo è ancora di più.
«Il Tour per gli americani è qualcosa di unico, anzi “è” il ciclismo. Se ci partecipi ti dicono “Oh, devi essere davvero forte per essere lì”, ma tutte le altre gare neanche le conoscono. Mi viene in mente l’era Armstrong, gli anni del doping e molti pensano che i ciclisti siano ancora come allora, ma tutto è cambiato. Il difficile però è recuperare la fiducia dopo che il danno è stato fatto e che danno…».