Non è più il tempo delle tendiniti e Dumoulin lo sa bene. Oggi va via la testa, punto e basta. Le tendiniti minarono la carriera di Fignon. Il parigino, di cui abbiamo parlato di recente ricordando la vittoria di Nibali ad Asolo, vinse il primo Tour a 23 anni e il secondo a 24, battendo pezzi grossi come Hinault e Lemond. Ci si stupisce per le vittorie precoci di Pogacar, senza rendersi conto che è già successo. Solo che allora le minori conoscenze fisiologiche e preparazioni spesso empiriche esponevano i ragazzi a carichi di lavoro che il fisico non era pronto a sostenere.
Fignon penò parecchio per rimettersi in sesto e non ci riuscì mai del tutto. Ugualmente si portò a casa il Giro d’Italia del 1989 e secondi posti beffardi, come quello del 1984 in Italia alle spalle di Moser e quello del 1989 a Parigi dietro Lemond.
Oggi non è più tempo di tendiniti. I corridori vanno in palestra. Hanno imparato a non abusare dei rapporti avendo capito che l’elevata frequenza di pedalata permette di esprimere meglio la potenza. Integrano meglio dopo gli sforzi e offrono un miglior supporto al proprio corpo. Oggi il punto debole è nella testa e per quella c’è poco da fare. Se il filo si spezza, non c’è modo di riannodarlo.
La ricerca della perfezione
Ne ha parlato giorni fa Enrico Battaglin, descrivendo la sua fatica nel tenere i ritmi del ciclismo attuale.
«Il problema – diceva – è che tutti hanno alzato il loro livello. Serve curare il dettaglio per colmare il gap. In più cresce il livello di stress, perché sei sempre alla ricerca del limite. Per questo non credo a carriere lunghe. Anche per i leader. Quando sono passato, i veri capitani puntavano ai loro obiettivi e nel resto delle corse lavoravano o lasciavano spazio. Adesso anche loro sono sempre al 110 per cento».
Ne aveva parlato in precedenza Moreno Moser, raccontando di una conversazione avuta con Bettiol nelle settimane che portavano al Tour.
«Quello che mi diceva Alberto è che ormai il ciclismo è così totalizzante, che devi prendere questo lavoro per step. Da qui al Tour non esisto più, sono un robot. La vita è solo quella della bici e dell’allenamento. Il recupero si farà dopo…».
L’esempio di Dumoulin
Nella trappola è caduto nuovamente Dumoulin, che pure la prima volta provò a riannodare i capi. AI primi del 2021 annunciò infatti con un lungo post su Instagram che si sarebbe fermato.
«Ho deciso di congedarmi per un periodo di tempo indeterminato dal nostro bellissimo sport. Da troppo tempo sento una grande pressione. Ho dimenticato me stesso, volendo fare il meglio per la squadra, gli sponsor e tutti gli altri. Ho dimenticato cosa voglio davvero in questo sport e per il mio futuro. Poiché non ho questa risposta chiara per me stesso, in realtà non sto nemmeno facendo del mio meglio per le persone intorno a me. Ho davvero bisogno del tempo per avere le cose chiare nella mia testa su cosa voglio e come lo voglio».
Il ritorno
Non si trattava di scarso amore per lo sport, dato che dopo aver postato quel suo scritto, andò a farsi un giro in bici e fece in modo di farsi vedere lungo la strada delle corse che passavano vicino casa sua a Maastricht.
Il richiamo del gruppo fu più forte, al pari della sua voglia di non arrendersi. Lo vedemmo a Livigno. Lo applaudimmo sul podio della crono olimpica di Tokyo. Ci illudemmo che il nodo tenesse. Fu quando lo vedemmo stordito sul Block Haus al Giro che capimmo che non era vero niente. E puntuale come un presagio, è arrivato ieri l’annuncio del ritiro definitivo. Si trattava comunque di un ritorno a orologeria: Tom avrebbe mollato dopo la crono dei mondiali, ma non ce l’ha fatta.
Di nuovo al tappeto
«Quando ho deciso di tornare – ha scritto su Instagram – l’ho fatto con un senso di libertà, alle mie condizioni, con il supporto della squadra e con la mia motivazione intrinseca come carburante principale. Questo è ciò che mi ha riportato la gioia del ciclismo dei primi tempi. Ma noto che non ce la faccio più. Il serbatoio è vuoto, le gambe sono pesanti e gli allenamenti non stanno andando come speravo. Dal mio duro incidente in allenamento lo scorso settembre (Dumoulin fu investito da un’auto e ha dovuto sottoporsi ad un intervento chirurgico per mettere a posto il polso destro, ndr), qualcosa si è rotto di nuovo. Ho dovuto interrompere i miei sforzi ancora una volta e affrontare un’altra delusione».
Era troppo e ogni tentativo di tornare davanti ha aggravato il senso di fatica e di frustrazione. Le tendiniti le aggiusti, la mente no.
Rischio burnout
Ci sono due modi per elaborare l’esperienza dell’olandese. Attaccargli l’etichetta di debole e lasciarlo andare. Oppure riflettere sul campione che si è perso nel nome della ricerca spasmodica della perfezione. L’uomo non è una macchina, esiste un limite (soggettivo) oltre il quale è rischioso andare. Il burnout è una sindrome sempre più diffusa nel mondo del lavoro, da quando ad esempio la connettività permanente impedisce di sottrarsi alla pressione e alla necessità di essere presenti.
Nelle squadre è spuntata da qualche tempo la figura dello psicologo e in alcuni casi dello psichiatra. Il corridore prova sempre a rialzarsi e ripartire, ma non c’è fase nella sua vita che non sia tiranneggiata dall’esigenza di perfezione. Siamo certi che leggeremo presto sui social che altri alle prese con lavori ben meno gratificanti stanno decisamente peggio. Non abbiamo indicazioni da dare, si tratta pur sempre di aziende gestite da altri. Ci chiediamo semplicemente se vada bene così.