Il Tour Colombia finisce in archivio con la vittoria finale di Rodrigo Contreras e la sensazione di una macchina appena rimessa in moto, per questo bisognosa di rodaggio e sintesi. Non c’erano i corridori delle precedenti edizioni, eppure fra i nomi venuti alla luce negli ordini di arrivo, quello di Andrea Piccolo fa particolarmente piacere. Il milanese ha lavorato per il suo leader Carapaz scortandolo fino all’approdo sul podio di Bogotà e sta lanciando da qualche tempo degli ottimi segnali. La sensazione che sia prossimo alla svolta si fa largo in chi meglio lo conosce, nella squadra che ci crede e ovviamente nei tifosi che non hanno mai spesso di aspettarlo.
La trasferta colombiana, con tutti gli interrogativi di una corsa costantemente sul filo dei 2.500 metri, lo ha segnalato con un settimo e un secondo posto. E’ difficile presentarsi laggiù e portare a casa qualcosa di particolarmente pesante: sono troppe le differenze di adattamento rispetto ai corridori che a quelle quote sono nati e risiedono. Eppure nella seconda tappa, con l’arrivo a Santa Rosa de Viterbo, Piccolo si è arreso soltanto al maggior spunto e forse anche alla voglia di vincere di un colombiano come Tejada. Chi l’ha visto pedalare dice che il ragazzo spinge già forte e non ha perso l’estro di immaginare l’impossibile: buon viatico per quello che troverà in Europa.


Ti si vede correre davanti, bel segno. Hai fatto un bell’inverno? Come è andata la preparazione?
Sicuramente ho fatto un inverno differente da tutti gli altri anni. Il clima ci ha aiutato e nel momento in cui ha incominciato a far freddo in Europa, sono venuto in Colombia a fare un ritiro in altura per adattarmi già alla corsa. Per questo la preparazione è andata tutta secondo i piani prestabiliti da me, dalla squadra e dall’allenatore
Quanto è importante per il morale e la voglia di lavorare andare alle corse e stare davanti?
Molto! Vedere di essere davanti ti dà la forza di fare sempre una pedalata in più per non staccarti, perché sai che anche gli altri sono allo stesso limite.


Come è stato il primo anno nel WorldTour e a cosa è servito?
Lo scorso anno sicuramente non è stato semplice per me. Ho cercato sempre delle sensazioni in allenamento e in corsa che non ho mai trovato. Però ho lavorato molto per la squadra e questo mi è servito da esperienza.
Si è sempre detto che hai un grande motore, stai lavorando anche sull’aspetto mentale, magari cominciando a puntare a obiettivi definiti?
Sì, sto lavorando molto a livello mentale. Mi sto facendo seguire da un mental coach e questa cosa è molto importante. Ho notato davvero la differenza. Ho capito che per poter vincere contro gli altri, devi prima vincere te stesso. E’ stato un passaggio decisivo, che consiglierei a tutti. Si acquista una sicurezza molto superiore in se stessi.


Buttiamo via la scaramanzia: qual è l’obiettivo dei sogni?
Come ho imparato, preferisco puntare a traguardi reali e non troppo distanti. Quindi l’obiettivo sarà quello di far bene alla Liegi e provare a vincere una tappa al Giro d’Italia.
Come ti trovi alla EF?
Alla EF mi sento sereno e supportato in tutto. Ci danno tutto quello che serve per essere ai livelli top, abbiamo la possibilità per allenarci e rendere al meglio. E ho capito che essere tranquilli e sereni a livello mentale è la cosa più importante.
Dopo le varie vicissitudini delle ultime stagioni, dalla Gazprom alla Drone Hopper, ti senti più solido di quando sei passato?
Sicuramente sì. Sento di aver costruito e di avere comunque una base sotto, che prima non avevo sicuramente. Gli anni di esperienza nel WorldTour servono a questo: a creare una base solida per poi poter lavorare bene.


Cosa speravi di portare a casa da questo viaggio?
Da questa trasferta ho già portato a casa più di quanto sperassi. Adesso non resta che tornare a casa. Mi sono goduto l’ultima tappa, cercando il miglior risultato possibile per la squadra. Sono soddisfatto perché non mi aspettavo che il mio fisico rispondesse così bene all’altura. Per questo non vedo l’ora di tornare in Europa per scoprire le nuove sensazioni.