Non conoscevo Samuele Privitera e non so se renderne grazie. Mi sarebbe piaciuto avere qualche esperienza condivisa con quel ragazzo entusiasta e solare, per contro tuttavia avrei attraversato i giorni della sua caduta e della morte rivivendo storie di ieri di cui porto ancora le cicatrici. Sono stati giorni pesanti, in cui ho toccato con mano lo sgomento di chi era sul posto e si trovava per la prima volta a contatto con la morte. Non ci si fa il callo, ma si impara il modo per tenerla a distanza, mettendo in atto dei meccanismi di autodifesa, che non sempre funzionano, ma di certo alleviano i colpi.


La famiglia del ciclismo
Ricordo come fosse ieri la caduta di Diego Pellegrini, al mio primo Giro della Valle d’Aosta, perché con lui avevo scherzato al via della tappa. Quella di Fabio Casartelli, che giusto prima di avviarsi aveva mostrato la foto del figlio Marco. Ricordo Wouter Weylandt, che non conoscevo tanto bene, ma era lì qualche ora prima e di colpo se ne era andato. La differenza a ben vedere la fa il fatto di conoscerli e aver condiviso il sogno, la rincorsa, il successo e anche il fallimento. Si fa parte della stessa famiglia e nelle famiglie succede anche questo.
Le statistiche della mortalità sulle strade dicono che ogni anno muoiono molti più ciclisti e anche più giovani di Samuele Privitera (in apertura foto @jcz__photos). Ma finché restano confinati nel conteggio e non hanno un nome, una storia e un sogno che ti coinvolgano, riesci a farli scivolare in modo più indolore. Se però nella statistica rimangono coinvolti (fra i tanti) Simone Tomi, Silvia Piccini, Tommaso Cavorso, Giovanni Iannelli, Davide Rebellin, Sara Piffer e mia zia Sandra che viveva a Bologna, allora capisci che è tutto vero.
Nei giorni della morte di Samuele abbiamo sentito parole dettate dallo sgomento, ma anche dalla brutta abitudine di drammatizzare i toni, quasi sentendosi in colpa per essere ancora qui, mentre lui non c’è più. Abbiamo sentito dire che il ciclismo è uno sport pericolosissimo, ma sarà vero?


A misura di SUV
Sono le strade a esserlo, italiane e non. Viviamo in un mondo a misura di automobile: veicoli sempre più grandi, veloci, violenti e insonorizzati. Un SUV di oggi ha lo stesso ingombro dei furgoni di un tempo, ma le carreggiate sono strette come 50 anni fa. Per farli rallentare non bastano i segnali di pericolo oppure ricordare che potrebbero esserci dei bambini che giocano: cosa gliene frega a un automobilista che ha fretta se travolge qualcuno? La donna che uccise Silvia Piccini proseguì e si presentò al lavoro.
Allora servono i dossi. Oppure si delimitano le corsie con vasi di calcestruzzo, rialzi e cordoli molto alti. Si è creata una geografia di ostacoli, che gentilmente vengono definiti arredi urbani e che dal mio punto di vista sono barriere architettoniche per chi vive la strada su due ruote, con o senza motore. Samuele è morto perché non si è accorto di un dosso del quale si sarebbe potuto fare a meno se la civiltà stradale fosse degna di questa definizione. Mattias Skjelmose è stato costretto a ritirarsi dal Tour perché si è trovato davanti, non segnalato, uno spartitraffico che lo ha fatto volare. Non serve a niente imporre cerchi più bassi e manubri più larghi se le strade sono queste.


Campi di battaglia
Il pavone Salvini, che si occupa di sicurezza stradale e infrastrutture e vuole legare a tutti i costi il suo nome a quel dannato ponte, dovrebbe essere più fiero di aver educato gli italiani a vivere civilmente sulle strade. Samuele Privitera è morto su un dosso che rappresenta il fallimento di questo tipo di educazione. Diverso il caso di Iannelli, ad esempio, probabilmente ucciso dall’assenza delle necessarie precauzioni in un rettilineo di arrivo. Diverso forse il caso di Diego Pellegrini, che in piena discesa trovò in traiettoria l’ammiraglia di un direttore sportivo che cercava di soccorrere il proprio corridore caduto. Non si venga a dire che il ciclismo è uno sport pericolosissimo, oppure si contestualizzi la frase.
Il ciclismo è uno sport pericolosissimo perché si svolge su strade come campi di battaglia. Siamo vittime del bullismo delle auto e delle trappole di chi cerca di arginarle. Se nelle vecchie zone di guerra i bambini continuano a morire ed essere mutilati per l’esplosione delle mine antiuomo, la colpa è loro che le hanno calpestate oppure di chi quelle mine le ha sepolte?