Abbiamo già avuto modo di parlare del Grote Prijs Beerens e della particolare storia che contraddistingue la sua vincitrice Thalita De Jong. Nella stessa gara belga, fa capolino nella Top 10 Gaia Tortolina e anche la sua è una storia interessante perché stiamo parlando di una ragazza di 24 anni che un giorno, da poco maggiorenne, ha fatto le valigie e si è trasferita in Belgio non solo per seguire il suo sogno di correre in bici, ma bruciando le tappe è arrivata a diventare un’imprenditrice.
A raccontare la sua curiosa parabola è lei stessa, appena tornata dall’ennesima corsa, disputata sotto l’acqua come spesso succede da quelle parti. Ma la fatica dalle sue parole non si sente, quel che traspare è entusiasmo.
«Vengo da una famiglia sportiva, con mio padre che, dopo una carriera anche professionistica nel calcio si è dedicato al triathlon coinvolgendo anche mia madre. Io ho iniziato da piccolissima, in altri sport andavo anche meglio, ma il ciclismo è stato sempre il mio preferito, sono arrivata a livello junior e a 18 anni sono diventata professionista in una squadra di Asti».
Quando ti sei trasferita in Belgio e perché?
Non mi trovavo bene nel team italiano, non trovavo gli spazi che volevo. Una compagna di squadra belga mi suggerì di provare a raggiungerla, perché nel calendario belga ci sono tante gare in più per le donne. Misi la bici e una valigia in macchina e partii, senza assolutamente sapere che cosa mi aspettasse. Pensavo a un breve periodo per mettermi alla prova e imparare, era il 2017… Insomma sono ancora qui.
Come ti sei trovata?
Se ami il ciclismo questo è il paradiso, da ogni punto di vista. Innanzitutto perché le Fiandre sono un ambiente a forte vocazione ciclistica: non c’è nessuno che non abbia una bici e non la usi, anche solo per spostarsi in città. I luoghi delle classiche, ad esempio, sono quasi oggetto di culto, nel fine settimana ogni passaggio del Fiandre o della Liegi sono metà di escursioni e di pedalate anche solo per dire “l’ho percorso anch’io”. Inoltre la società fiamminga è da sempre molto aperta con gli stranieri, basta parlare un po’ d’inglese e ci si intende con tutti. Le società ciclistiche sono tutte multietniche e anche queste considerazioni mi hanno portato a creare un’esperienza tutta mia.
Com’è successo?
Con lo stop dettato dalla pandemia mi sono ritrovata di punto in bianco senza squadra, ma non volevo mollare. Potevo cercarne un’altra, ma sarebbe stato un terno al lotto,. Allora su consiglio del mio compagno, che è belga e fa il meccanico, ho deciso di creare una squadra dal nulla, nella quale investire soldi, tempo, ma soprattutto passione e valori. Voglio che le ragazze attraverso lo sport crescano anche interiormente, acquisiscano coscienza della propria dignità: tante volte ad esempio ho sentito dire in Italia che se non pesi 45 chili non sei una ciclista e questo per me è inaccettabile, un abuso psicologico. In Belgio certe cose non accadono.
Che ruolo hai nel team?
Io sono un’atleta a tutti gli effetti e visti i regolamenti non potrebbe essere altrimenti, ma è chiaro che seguo un po’ ogni aspetto della squadra, curo le trasferte e tutto il resto, è un impegno forte, ma nel vale la pena.
Parlaci del tuo team…
Siamo una dozzina di ragazze, in prevalenza italiane, ma con due belghe, una norvegese e un’argentina. L’affiliazione del Women Cycling Project, così si chiama, è stata affiliata in Italia ma la maggior parte delle gare sono in Belgio, almeno per le straniere e me. Le italiane gareggiano per quanto possono in Italia, poi d’estate vengono a fare attività qui.
Perché dici “per quanto possono”?
Il livello di attività è ben diverso fra Belgio e Italia, non solo qualitativamente. In Belgio il calendario è strapieno, ci sono le prove World Tour, quelle nazionali e tantissime gare regionali e considerando che geograficamente il Belgio è abbastanza piccolo, le trasferte sono minime, spesso non serve neanche dormire sul posto. Questo influisce anche sulla qualità: il calendario italiano è troppo ridotto, le ragazze non hanno modo di gareggiare abbastanza e crescere, perdono motivazioni e alla fine mollano e lo stesso dicasi per i team, costretti a spendere tanto e avere pochi rientri.
Perché allora secondo te il ciclismo femminile belga non emerge?
E’ un tema interessante, per me è un controsenso. L’idea mia è che le atlete di qui, avendo tante gare a disposizione, perdano alla lunga la voglia di emergere, si accontentino, ma d’altronde va anche considerato che nella maggior parte dei casi le ragazze abbinano il ciclismo al lavoro, è una sorta di seconda entrata economica, pur sempre ridotta e sono quindi poche che fanno il grande salto. Ciò non significa che non siano professionali nell’affrontare le gare, ognuna ha il suo preparatore e non trascura nulla, anzi in Belgio si punta molto sull’allenamento di forza per usare rapporti più lunghi. Un altro fattore che secondo me incide è il grande salto che compi da quando sei junior fino alle Elite: il livello cambia, gli spazi si riducono e le motivazioni cedono.
Sei sempre convinta della tua scelta ciclistica?
Assolutamente, in Italia ci sono troppe poche occasioni agonistiche. Il ciclismo femminile italiano avrebbe bisogno di un grande aumento delle sue prove, un po’ come avviene nel ciclismo under 23 dove il calendario è sempre stato ricco. Se fossi rimasta in Italia avrei smesso, questo è sicuro. Un incentivo che c’è in Belgio è che non tutto è dovuto, anche a livello tecnico: bici, accessori, materiale, la squadra ti dà in base all’attività che fai e ai risultati, devi anche guadagnartelo e posso dire che è un sistema che funziona.
Sei molto giovane, ma hai pensato a cosa fare finita la carriera, se rientrare in Italia?
Sinceramente non lo so, amo moltissimo l’Italia, ho preso da poco la laurea triennale in psicologia e vorrei un domani lavorare attraverso di essa in ambito sportivo. Il futuro è tutto da scrivere.