Luca Coati e il grande aiuto ai ragazzi africani

10.11.2022
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Quando la scorsa volta Daniele Nieri ci aveva detto che Luca Coati era una spanna sopra a tutti nell’agevolare l’integrazione dei ragazzi africani, adesso abbiamo capito il perché. Luca era al Team Qhubeka, continental che porta avanti il progetto di Douglas Ryder per lo sviluppo del ciclismo nel continente africano.

Nieri ci aveva detto che non è facile stare insieme per un ragazzo europeo e uno africano, troppe differenze. E che non bastava la sola mano del direttore sportivo. A far sì che i ragazzi s’integrassero nella bici e nella vita quotidiana serviva l’aiuto degli altri corridori.

Luca Coati con Daniele Nieri. Il veneto (classe 1999) lascerà la Qhubeka dopo due stagioni
Luca Coati con Daniele Nieri. Il veneto (classe 1999) lascerà la Qhubeka dopo due stagioni

Coati cuore d’oro

Luca Coati, che sta cercando la squadra per l’anno prossimo, tra un allenamento e l’altro ci racconta questo spaccato di ciclismo moderno che non ci aspettavamo.

«Io – dice il veneto – sono arrivato l’anno scorso in Qhubeka. Per i ragazzi africani stare in Italia penso sia un grosso impegno a livello mentale: sono lontani dalle famiglie, dal loro mondo. Di fatto passano in ritiro tutto l’anno. Sì, anche alcuni italiani lo fanno, come i sardi o i siciliani per esempio. Noi del Nord ci siamo molto meno abituati».

A sinistra la pentola di pasta degli italiani, a destra quella già con l’olio degli africani
A sinistra la pentola di pasta degli italiani, a destra quella già con l’olio degli africani

Alimentazione da rivedere

Con il velocista-cronoman veronese, partiamo da uno degli aspetti più curiosi e che marcano le differenze culturali: l’alimentazione.

«In Qhubeka ci lasciavano carta bianca sul mangiare – racconta Coati – Quando andavamo a fare la spesa noi italiani compravamo cose normali: riso, pasta, pollo… E quello cucinavamo. Loro magari prendevano delle verdure, tipo dei pomodori, facevano una sorta di sugo con tante spezie e cipolle, poi prendevano una pagnotta intera di pane, la mettevano nella pentola e mangiavano tutti insieme da quella pentola. E lì ti chiedi: cosa sta succedendo? Non sei abituato a vedere certe cose.

«Oppure per fare la pasta prendevano acqua, olio e pasta e cuocevano tutto insieme».

«Non sanno usare la lavatrice, la lavastoviglie. Devi spiegargli tutto. Ripeto: è un altro mondo. Per questo la Qhubeka solitamente gli fa dei contratti di minimo due anni. Il primo gli serve per prendere le misure con la nuova vita. Mentalmente devono formarsi».

Venendo da strade larghe e dritte all’inizio i ragazzi africani, eritrei soprattutto, incontrano grandi difficoltà
Venendo da strade larghe e dritte all’inizio i ragazzi africani, eritrei soprattutto, incontrano grandi difficoltà

Dai drittoni alle curve

Riguardo alla bici è ancora diverso. In molti arrivano dall’Eritrea. E subentra anche un discorso di strade.

«Ho parlato spesso con Henok Mulubrhan che ora è alla Bardiani Csf Faizanè – va avanti Coati – e mi diceva che in Eritrea c’è una sola strada, quasi tutta dritta. E faceva quella per allenarsi. Avanti e indietro. Da noi ci sono discese, salite, bivi, curve… All’inizio hanno fatto una grande fatica. Non sono abituati. Passano da uno stradone unico sostanzialmente a un percorso misto».

«Nei tornanti avevano grosse difficoltà. Ma è normale se tu per 20 anni hai fatto sempre la stessa cosa e poi trovi in continuazione qualcosa di nuovo è cosi. Serve del tempo per adeguarsi».

Una foto della passata stagione con Coati e Henok Mulubrhan
Una foto della passata stagione con Coati e Henok Mulubrhan

Il bene torna

Coati non è stato il solo italiano o europeo a stare vicino ai ragazzi africani. Ma è quello che rispetto ad altri ha avuto un’altra sensibilità. E forse anche per questo è riuscito a trovare il grimaldello per farli aprire, per comunicare (parola chiave come vedremo), per farli crescere.

«Anche io nei primi anni da under 23 non parlavo bene l’inglese. Col tempo sono migliorato e ora riesco a tenere un dialogo. E così loro si facevano capire e mi capivano.

«Ma credo che la differenza per stabilirci un rapporto vero sia soprattutto nel modo in cui ci parli. Perché come dice Nieri, non è facile neanche per noi. A volte ti viene da rimproverarli, ma perché non sanno. Cose che per noi sono scontate, per loro sono surreali. E così c’è chi era un po’ più rude e chi, come me, era un po’ più soft. Io sono convinto che il bene se lo fai prima o poi ti torna indietro».

«Gran parte degli africani con cui ho avuto a che fare hanno un cuore grande. Affezionarsi ad una persona vuol dire che ti ha lasciato qualcosa di buono. E lo stesso vale al contrario, con loro che sono riconoscenti con te. Poi è chiaro che c’è anche un discorso di compatibilità. Ma se tu sei disponibile, gli dai consigli… loro ti prendono come riferimento, come un fratello».

Nahom Zerai al Tour of Britain… Dopo le prime incertezze i ragazzi migliorano a vista d’occhio
Nahom Zerai al Tour of Britain… Dopo le prime incertezze i ragazzi migliorano a vista d’occhio

In bici…

L’integrazione non riguarda solo il quotidiano, c’è il discorso più importante: l’integrazione in bici, l’apprendimento del ciclismo vero e proprio. Anche in questo caso il lavoro di Coati è stato grande. Come detto, si parlava di problemi nel fare le curve, figuriamoci nello stare in gruppo.

«Con i ragazzi appena arrivati, nelle prime corse, ancor più che negli allenamenti (perché all’inizio allenarsi insieme non è possibile), devi insistere sul discorso dell’alimentazione in bici. Devi ripeterglielo in continuazione. Loro hanno tutt’altro concetto: non berrebbero e non mangerebbero nulla per tutta la corsa.

«Poi magari arrivano, o si fermano prima, perché hanno i crampi, sono andati in crisi di fame… Corsa dopo corsa iniziano a capire che forse c’è qualcosa da migliorare».

«Stare in gruppo? Ah – ride Coati – chiedete a Nieri quanti telai hanno rotto quest’anno! Ma è normale. Erano sempre per terra. Poi magari un Ephrem Ghebrehiwet, che si butta di più, cadeva lo stesso, ma si rialzava subito. E cade anche un giorno sì e un giorno no. Ma loro vanno avanti.

«E questa è una cosa positiva rispetto a noi europei. Hanno tanta più fame. Non si arrendono».

«In gruppo, magari fanno qualche azione che non serve a niente, ma sempre perché non ci sono abituati.

«Bisogna pensare che in Eritrea per esempio partono in 30, stradone unico, dopo 10 chilometri restano in cinque davanti e finisce la corsa con quei cinque. Poi si ritrovano da noi con 150-200 persone, salite, discese, curve e tutto diventa più difficile».

Soprattutto le prime uscite con i “primi anni” non sono così semplici da gestire (foto Instagram)
Soprattutto le prime uscite con i “primi anni” non sono così semplici da gestire (foto Instagram)

Traduttore in corsa

Luca doveva fare la sua corsa, ma anche in questo senso lui cercava di dargli qualche consiglio o di portarli avanti.

«Tante volte abbiamo usato la radiolina e col tempo hanno capito che era meglio stare più avanti. Ma poi c’era il problema della lingua. In Qhubeka si parla inglese, ma loro in Eritrea per esempio parlano il “tigrino”, devono imparare anche loro l’inglese e al primo anno fuori casa non lo sanno. Così Nieri per comunicare con nuovi arrivati via radio doveva dire le cose ad un ragazzo che era in Europa da almeno una stagione il quale a sua volta doveva tradurre. Era un vero macello!

«Daniele cerca di spiegargli le cose. Ti fanno sì con la testa, ma in realtà non hanno capito. Come quando c’è da andare a prendere la borraccia, ma poi non ci vanno. E questo alla lunga ti fa saltare i nervi».

Mulubrhan dopo aver ricevuto la bandiera da un fan in Norvegia
Mulubrhan dopo aver ricevuto la bandiera da un fan in Norvegia

Solidarietà eritrea

Pazienza e tempo sono vitali in questo progetto. E servono anche per la vita normale, quella che farebbe un ragazzo italiano dopo la scuola o dopo il lavoro. Anche in questo caso emergono aspetti affatto scontati.

«Come passano il tempo? Quasi sempre in videochiamata. Questo perché, soprattutto in Eritrea, non hanno connessione come da noi. Il governo li blocca e li controlla. Quando è in Africa e mandi un messaggio ad Henok, se ti va bene ti risponde dopo tre giorni. E così sono sempre connessi con altri eritrei in giro per il mondo appena possono».

«E si aiutano. Eravamo appena arrivati in Norvegia per una gara. C’era un eritreo che li aspettava sotto l’hotel con una bandiera. Hanno parlato un po’. Henok gli ha detto che non aveva vestiti normali per coprirsi dal freddo. Dopo neanche un’ora questo tizio lo ha richiamato: gli aveva comprato maglie, felpe e giacche nuove. Non solo, ma gli ha regalato anche la bandiera della loro Nazione. La sua felicità diceva tutto».

«Una cosa bella è che si ritrovano spesso. Sono tutti amici. E non solo tra eritrei, ma tra tutti gli africani. Quando eravamo in Toscana, vicino casa nostra c’era l’appartamento di Tesfatsion e anche se era di un team diverso, stavano insieme alla sera.

«Henok e Tesfatsion sono quelli più attivi. Ormai sono anni che sono qui e aiutano i nuovi arrivati… anche se non hanno imparato una parola d’italiano!»