Agostini, una storia (illuminante) di dolore e rinascita

05.12.2021
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Stefano Agostini è nato il 20 settembre del 2013 a 24 anni, quando firmò la lettera di licenziamento e lasciò il quartier generale della Liquigas con un sospiro di sollievo. Stefano non è mai stato un ragazzo banale, aveva cose interessanti da dire e la reazione violenta della squadra alla positività per aver usato una pomata contro le scottature lo scosse e scosse l’ambiente. Fu troppo, ma forse fu la spinta che il ragazzo di Udine aspettava per liberarsi da un ciclismo che si era fatto opprimente e che si avviava a schiacciare alcuni dei talenti più belli. Quelli del 1989 e del 1990. Quelli che tranne pochi casi hanno smesso tutti.

«Sapete – dice – che parlavo di questa cosa un paio di settimane fa con Battaglin? Siamo stati compagni di squadra, poi l’ho visto al suo matrimonio, mentre lui non è potuto venire al mio perché mi sono sposato in pieno Covid. Così finalmente ci siamo ritrovati a cena. E gli ho chiesto: “Ma ti ricordi il mondiale juniores del 2007? Sembravamo votati a carriere di successo, invece ci siamo persi un po’ tutti. E’ rimasto Ulissi, ma non a livello di uno che ha vinto due mondiali juniores”. E lui con la solita sintesi ha risposto che non ci capisce più niente e che vanno tutti più forte di lui. Che i nuovi arrivati sembrano tutti dei piccoli Sagan…».

Battaglin, Agostini, Boem: quelli del 1989 della Zalf, destinati a carriere luminose
Battaglin, Agostini, Boem: quelli del 1989 della Zalf, destinati a carriere luminose

Lo zampino di Rui

Non ci sentivamo da un pezzo e c’è voluto “Ciano” Rui per recuperare i contatti. E così Stefano racconta che dopo il primo anno lavorando in Selle Italia per il mercato britannico e spagnolo, ha accettato l’offerta di Salomon, partendo come rappresentante dell’abbigliamento e poi crescendo. Non voleva più stare nel ciclismo, invece nel 2020 lo ha chiamato Fantic Motor, da poco rilevata da VeNetWork, pool di imprenditori veneti che ne hanno fatto esplodere il valore puntando sulle e-Bike.

«Sono responsabile commerciale per l’Italia – racconta – cercavano una figura che seguisse il mondo bici e così ho iniziato il 3 febbraio del 2020. E’ stato strano rientrare nel ciclismo. Fuori c’è un mondo enorme, ma volevo fare un lavoro più manageriale dopo gli anni sul campo e vedere se facesse per me. Ho scoperto che funziona. Ho 11 agenti sul territorio e il 5 settembre del 2020 mi sono sposato con Vittoria. Stavamo insieme da 17 anni, era giusto farlo. Lei è magistrato e viviamo vicino Noale».

Alla Liegi del 2013 all’ultimo anno in gruppo, senza mai rendere come sperava e meritava
Alla Liegi del 2013 all’ultimo anno in gruppo, senza mai rendere come sperava e meritava
Segui le gesta dei tuoi ex colleghi?

Un po’ sì. Non metto la sveglia per seguire le corse, ma faccio parte della Sacra Confraternita Unita e ci sono sempre. Seguo le corse più importanti. Sono stato a Eicma per l’elettrico e mi sto appassionando ad altre dinamiche della bici. Ieri però ho fatto il primo giro in bici dopo due mesi. Faccio i miei 70-80 chilometri. Di solito arrivo in negozio da Marco Bandiera, prendiamo il caffè e torno indietro. Non sono più competitivo (ride, ndr).

Che cosa pensi della tua generazione?

Io faccio parte dei disillusi, ma in assoluto penso che in quegli anni non c’era tempo per crescere e aspettare. Alcuni sono passati e hanno vinto subito, chi arrivava secondo lo viveva come una sconfitta. Quand’è così la testa diventa fondamentale, perché per preparazione e alimentazione sono tutti lì. Vedere un Battaglin o anche Moser che si stacca da un gruppo di 30 corridori è un fatto di testa.

Perché è successo?

Il 1989 sembrava l’anno dei fenomeni, per fortuna alcuni tengono duro. Secondo me c’erano tante aspettative e non s’è costruito sotto, nei dilettanti. Non si voleva restarci troppo a lungo. Quando ho visto che non rendevo, ho cominciato a pensare che non fosse il mio lavoro. Aru stessa cosa. E’ passato ed è andato più forte di quanto si potesse immaginare. Ma quando tutti ti aspettano, la squadra conta su di te e i giornali ti puntano, diventa un peso che ti schiaccia. E ti senti inadeguato.

Per un po’ su tutti i social lo si vedeva correrea piedi in gare di resistenza come la Spartan Race
Per un po’ su tutti i social lo si vedeva correrea piedi in gare di resistenza come la Spartan Race
Non si riesce a farla scivolare addosso?

Ogni ciclista è sensibile, non siamo calciatori. Ti scivola addosso forse se sei come Sagan e hai vinto tutto, ma io non ho mai visto un ciclista che non andasse a spulciare l’articolo di giornale oppure a vedere cosa facesse il suo rivale.

Ti manca?

E’ stato duro all’inizio, ma davvero ho tirato un sospiro di sollievo dopo due anni in cui ero una delusione per me stesso e per gli altri. Io ho bisogno di stimoli, non ci sto ad accontentarmi. L’anno in Selle Italia è stato duro perché ero giovane, mi conoscevano ed ero ancora in condizione per essere un atleta di vertice. E ad essere sincero, mi scocciava veder vincere i miei coetanei, perché pensavo che potevo esserci io. Ora però non ci penso più. Sono contento quando vedo vincere Colbrelli o Trentin e sono orgoglioso dicendo che correvano con me. Mi sta bene la vita che faccio, non rimpiango niente, soprattutto pensando ai ragazzi che ogni anno devono lottare per cercarsi un contratto. Alcuni a volte mi dicono che ho fatto meglio io.

Due anni di delusioni per te e per gli altri: sul serio?

Soffrivo parecchio. Ricordo una volta che sperai di avere la febbre per non andare a correre in Belgio. Facevo la vita. Mangiavo al meglio. Mi allenavo tutti i giorni con Tosatto, eppure non andavo avanti. Avevo accanto l’esempio di Moreno Moser, che trasformava in oro tutto quello che toccava (i due sono insieme nella foto di apertura, ndr). Già Vittoria mi aveva detto di pensarci bene, così il licenziamento mise fine sotto una vita di stress, di Adams, problemi…

Difficile da accettare?

Ho iniziato a vincere a 16 anni e trovarmi in una squadra di fenomeni che si ricordavano com’ero mi dava la sensazione di rovinare il buono che avevo fatto. Una volta parlavo con Marangoni. Eravamo poco sopra al minimo di stipendio e lui diceva che finché avesse trovato chi gli dava quei soldi, avrebbe continuato. Io invece volevo di più, non mi stava bene. E alla fine ho preso la mia strada.

In casa hai qualcosa che parla di ciclismo?

A casa dei miei c’è ancora tutto. La maglia tricolore degli under 23 in un quadro, quella del Giro, tutti i trofei. A casa mia non c’è niente, a parte la bici. Per me ora il ciclismo è nel lavoro e in quei giri per andare a salutare Marco Bandiera. E sono felice così.