Al momento sono 174.165,7 chilometri divisi per 1.061 giorni di gara. Poi ci sono 49 vittorie e un’infinità di piazzamenti che ne fanno uno dei corridori al mondo più forti degli ultimi 20 anni. La stagione è ancora lunga e il conteggio crescerà, in ogni caso il bilancio di Diego Ulissi nella società in cui passò professionista nel 2010 e che lascerà alla fine del 2024 per passare alla Astana ha questi numeri. Una vita (simbolicamente) con la stessa maglia che porta con sé ricordi e incontri, che abbiamo chiesto al toscano di approfondire con noi. Perché nel cambiare di nome e sponsor c’è l’evoluzione del ciclismo, che nel caso dell’attuale UAE Team Emirates è passato dalla dimensione familiare della Lampre a bandiera degli Emirati Arabi Uniti.
Abbiamo sentito Ulissi alla vigilia del Giro della Toscana (in apertura, il passaggio sul traguardo all’ottavo posto), l’occasione perfetta per fare il pieno di lettere aspirate e battute livornesi. Sono anni ormai che Diego risiede a Lugano e difficilmente se ne andrà, ma tornare sulle strade in cui è cresciuto è sempre un riconnettersi con le origini, da cui nel 2010 spiccò il volo per diventare un ciclista professionista.
Che effetto fa pensare che dal prossimo anno non sarai più qui?
Sicuramente sarà una novità anche per me. Sono sempre stato nella stessa società con persone che conosco da tantissimi anni e quindi sicuramente sarà diverso. Di quelli dei primi tempi siamo rimasti in pochi. C’è Andrea Appiani, che prima era l’addetto stampa e ora lavora in ufficio. C’è Napolitano, che fa ancora il massaggiatore. Una segretaria che si chiama Rosita e c’è anche Carlo Saronni. E poi ci sono Manuele Mori e Marco Marzano, che nel frattempo da corridori sono diventati direttori sportivi.
Se pensi a questa squadra e ai 15 anni che ci hai passato, quali sono stati gli incontri che hanno più segnato la tua carriera?
Sicuramente per i primi tempi la figura che ha caratterizzato la mia carriera è stato Giuseppe Saronni. Per me è stato una persona fondamentale. E’ stato il primo che ha creduto in me e ha fatto sì che, almeno fino a che c’è stata la Lampre, io non mi muovessi da lì. Quando ero più giovane erano arrivate offerte da squadre che allora erano al top del ciclismo mondiale, però ero nell’ambiente ideale e chi mi era accanto ha fatto in modo e maniera che non me ne andassi. Quindi la prima persona che devo ringraziare è lui. E poi nel corso degli anni c’è stato Orlando Maini, grande direttore e grande amico. Mi ha saputo consigliare a 360 gradi. Orlando è una persona con cui puoi parlare di tutto e per me è stato importantissimo. Poi ci sono gli anni più recenti della UAE con Gianetti, Matxin e Agostini che sono persone molto importanti per la mia storia.
Quelle con Saronni e Maini sono amicizie che restano oppure, come quando si cambia lavoro, alla lunga si perdono i contatti?
No, no, no. Con loro sono ancora in contatto. Sono persone con cui parlo e cui chiedo consiglio ancora oggi. Negli anni ho sempre mantenuto i rapporti con chi ho imparato ad apprezzare. E quando ci sentiamo, mi fa piacere sentire che stanno bene e anche le loro famiglie.
Se ti facciamo il nome di Michele Scarponi?
Bè, finora abbiamo parlato di esponenti della società. Se ci spostiamo ai compagni, ce ne sono molti che mi sono rimasti nel cuore e sicuramente “Scarpa” è uno dei primissimi della lista. Il primo Giro d’Italia l’abbiamo fatto insieme nel 2011 perché mi ha voluto lui. Mi apprezzava sia come persona sia come corridore. Nella prima gara che vinsi, il Gran Premio di Prato del 2010, battei lui. L’anno dopo passò in Lampre e mi disse: «Ti voglio accanto, perché se mi hai battuto, devi essere per forza uno buono». Poi dovrei parlare di Alessandro Petacchi ed Emanuele Mori, che per me è come un fratello. Come pure Righi, Spezialetti e Matteo Bono: insomma sono tutti i ragazzi con cui continuo a sentirmi.
Ragazzi che quando sei passato professionista erano tutti più esperti di te, in che modo riuscivi a convivere con loro?
Quando ero giovane e passai professionista, li vedevo come un punto di riferimento fondamentale per la mia crescita. Cercavo di stare il più possibile vicino a loro, sia in gara che fuori. Ero convinto che quella fosse la strada migliore per imparare, perché loro avevano già tanti anni di professionismo. Quindi cercavo di rendermi disponibile e loro vedevano che avevo voglia di imparare e di capire. Per questo credo che nacque un rapporto di stima professionale che poi è trasformato in amicizia.
E’ cambiato tanto l’ambiente nel passaggio da Lampre a UAE?
E’ sotto gli occhi di tutti, soprattutto perché c’è stato un cambiamento di budget e la squadra è diventata molto più internazionale. Già da tempo si ambiva a diventare la squadra più forte e per questo è sempre cresciuta in tutti gli aspetti. E’ stato il cambiamento del ciclismo da 15 anni a questa parte. A un certo punto si è iniziato guardare il millimetro per migliorarsi sotto ogni aspetto, dalla ricerca della bicicletta più performante alla nutrizione. Tutti aspetti che ci hanno portato a diventare davvero la squadra numero uno al mondo. Però la Lampre era un ottimo ambiente. Non ci mancava niente e penso che con le risorse che c’erano si sono fatti ottimi risultati. Alla base c’era la famiglia Galbusera che, oltre ad essere grandi appassionati, erano grandissime persone. Riuscivano a trasmettere alla squadra la loro anima.
Hai vinto tutti gli anni, quanto è stato difficile continuare a farlo visti i tanti progressi?
Per rimanere a grandi livelli, quelli che servono per vincere le gare, devi stare al passo con i tempi, ti devi adeguare. A volte penso a quanto siano cambiati gli allenamenti e mi viene da dire che faccio un altro sport rispetto a quando sono passato professionista. E’ una battuta però la preparazione è l’aspetto che più è cambiato. E comunque se con la testa non riesci ad adeguarti alle nuove condizioni, rimani un passo indietro. Con il livellamento che c’è, ottenere risultati ed essere competitivo diventa difficile.
Tu hai visto arrivare in squadra Fabio Aru. Secondo te perché non è riuscito a esprimersi come tutti pensavano?
Questa è una bella domanda. Fabio l’ho vissuto a pieno, perché vivendo vicino mi confrontavo con lui quotidianamente, anche nei giorni di allenamento oltre che in gara. Sicuramente lui in primis si aspettava di mantenere quello che aveva fatto all’Astana. In quel periodo però non stava bene fisicamente. E se uno non è al 100 per cento nel fisico, emergere diventa veramente dura. Secondo me questo ha inciso anche sulla sua convinzione e alla fine ha ceduto di testa. Però Fabio era veramente il primo a tenerci, l’ho visto che si allenava davvero tantissimo. Si impegnava quotidianamente, sotto quell’aspetto è uno dei professionisti migliori che io abbia mai visto. Ha dato l’anima. Però a mio avviso ognuno ha il suo percorso di vita e reagisce a modo suo.
Nel frattempo la squadra si è riempita di tantissimi giovani molto forti, come si convive con loro?
La loro presenza non è mai stata un motivo per tirarmi indietro, tutt’altro. L’ho sempre visto come qualcosa per cercare di rimanere ad alti livelli. E’ normale vedere questi ragazzi con tanta voglia di emergere e pensare che se voglio rimanere ad alti livelli, devo migliorarmi quotidianamente e cercare di essere ancora performante in gara. Il passaggio a un’altra squadra non è legato a questo. Mi hanno offerto un rinnovo contrattuale, però questa volta ho preferito fare altre scelte.
Che differenza c’è tra Diego che oggi ha fatto altre scelte e Diego che non se ne sarebbe mai andato dal gruppo Lampre?
Non ho detto che non me ne sarei mai andato, ho detto che non ci sono mai state le circostanze per andare, è diverso. E’ naturale che quando ti trovi bene in un ambiente, prima di andartene valuti bene le altre situazioni cui andrai incontro. Non mi sono mai posto tanti problemi, perché ho valutato sempre la situazione. Alla fine è un lavoro. Facciamo tanti discorsi, però la carriera dura quello che dura e non ci sono certezze. Ogni due o tre stagioni, ho sempre valutato le varie situazioni e in tutti questi anni ho avuto la bravura e la fortuna di ricavarmi sempre le condizioni ideale. Quest’anno è arrivato il momento di prendere una decisione, che è stata difficile. Mi sono confrontato con le persone giuste, poi ho fatto questa scelta. Sono uno razionale, non faccio passare il tempo. Cerco di captare i momenti giusti e faccio le mie valutazioni.
Hai pubblicato una foto su Instagram di te sotto a una parete piena di maglie. C’è un anno che ricordi più volentieri?
Sono due. Il primo è il 2017 perché è il primo anno UAE. Era tutto nuovo, c’erano già grandi ambizioni, ma la squadra non era partita benissimo. Invece in fondo all’anno riuscii a vincere due gare WorldTour, Montreal e il Giro di Turchia. Sentii di aver dato una piccola spinta in quegli anni che erano ancora di transizione per arrivare al punto in cui siamo. Poi il 2020…
Come mai?
Fu un anno particolare per via del Covid e lì si è vista la forza del team, perché ci sono stati accanto e non ci hanno fatto mancare nulla. Eravamo rimasti bloccati ad Abu Dhabi e in quella situazione si vide veramente la grandezza del team. Poi infatti ripartimmo bene. Mi ricordo che quell’anno ho vinto 5 gare, due tappe al Giro, tre in Lussemburgo e Tadej vinse il primo Tour. Il 2020 è stato un anno di cui non mi scorderò. La tappa di Agrigento al Giro, per come è arrivata e per come è stata preparata dalla squadra, è una delle mie preferite.
Che cosa o chi ti dispiacerà lasciare?
Tutto e tutti. Alla fine siamo tanti giorni insieme, a parte il giorno di gara e i ritiri. E’ inevitabile che ti leghi alle persone con cui vivi quotidianamente. Si parla di tutto, anche della famiglia. Ci sono ragazzi molto più giovani di me come Alessandro Covi, che cerco di consigliare a 360 gradi. Dispiacerà lasciare le persone, i compagni di squadra, i massaggiatori, tutti! Ma tanto so che continueremo a vederci alle corse, ci saluteremo ancora.
Cosa speri o pensi di trovare alla Astana?
Conosco quasi tutti, a partire dai corridori. Hanno voglia di fare le cose in grande, il progetto è importante e quindi mi aspetto di ambientarmi molto bene. Il fatto che ci siano tanti italiani mi aiuterà molto e questo farà sì che io cerchi di dare il meglio di me stesso. Anche perché qua di italiani siamo rimasti in pochi. Ora siamo in tre, l’anno prossimo saranno in due. Ma ci sono ancora corse da fare e possibilmente da fare bene. La gamba è quella giusta, ma alla fine vince sempre uno solo…