Le luci accese nella casa di Marco sono un colpo, pur sapendo che da tempo in quella metà abita la nipote Serena, che dello zio ha l’indole indomita e lo sguardo profondo. Semmai la cosa è difficile farla digerire a papà Ferdinando detto Paolo, come si scriveva ai tempi. Dopo una vita a entrare per controllare che tutto fosse a posto, continua a farlo anche ora provocando qualche sussulto nei nuovi occupanti.
Tonina arriva dal piano di sotto, dove c’è più caldo e dove trascorrono la maggior parte del tempo. Ci si saluta come prima del Covid e poi è curiosa di sapere perché bici.PRO e annuisce condividendo e facendo gli scongiuri. Parliamo di lavoro e famiglia, dei cani che abbaiano in continuazione, di Paolo che litiga con Serena per questa sua abitudine a entrare, di Manola che fa le piadine e del vecchio chiosco che resta un luogo del cuore, anche se capita più spesso di vederlo chiuso che in attività. Poi, mentre Paolo fa avanti e indietro, il discorso va su Marco, che domani (oggi per chi legge) avrebbe compiuto 51 anni.
Quanti ne hai tu? Quest’anno sono 52, capo.
Eravate davvero vicini, ricordo. Già, un anno e 18 giorni, per essere precisi.
Nel vortice
Parla. Si accende. Ragiona in un dedalo intricato di teorie. Racconta di essere in mezzo a mille carte da studiare. Racconta delle Iene. Dell’antimafia. Degli avvocati e dei loro vezzi. Della Ronchi. Dei soldi spariti… La osservi e provi un tuffo al cuore. Le hanno ammazzato il figlio, non smetterà mai di lottare.
Tonina, ti capita mai di vedere Marco?
Lo sento vicino a me. L’altra sera ero sul divano, con il cane che guardava dietro di me e abbaiava. Gli ho chiesto se ci fosse Marco, tanto guardava fisso alle mie spalle dove c’era solo un mobile. E mi sono girata…
Paolo alza gli occhi al cielo, ma si vede che il racconto non lo lascia indifferente.
«Paolo cambia sempre discorso – dice quando lui esce dalla stanza – ma lo vedo che soffre come un cane. Io ho allentato con le visite al cimitero. Prima andavo tutti i giorni, ora una volta alla settimana. Lui continua ad andare due volte al giorno».
Per chi continui a lottare, per te o per Marco?
E’ per Marco. Gli ho fatto una promessa, perché non ci era riuscito lui a dimostrare la verità. Vado avanti, scopro sempre un pezzetto di più. E penso che la gente abbia capito. Se stavo zitta anche io, Marco era morto e basta. Nessuno avrebbe aggiunto altro a Campiglio, invece un po’ di verità e di giustizia è venuta fuori. Ho visto tanto amore, basta andare su Facebook. Incontro tante persone che lo hanno conosciuto e mi regalano un pezzetto della loro vita. Mi scoccia quando lo giudicano per sentito dire e senza averlo conosciuto. Perché tutti quei titoli dopo Campiglio e quando è morto, senza neanche aspettare le indagini?
Tutto per i soldi
Deve aver fatto i capelli da poco, il viso è stanco anche vista l’ora della sera, ma gli occhi lampeggiano. Ha la stessa voglia di arrivare di Marco e la rabbia che le deriva di essersi fidata via via di persone che l’hanno raggirata in nome dei soldi. Quanti soldi…
«Non ho mai capito per quale motivo a un certo punto dovettero aprire la società di San Marino – dice – se scavano là, ne trovano di roba. Devono seguire i soldi, perché alla fine è stato tutto uno schifoso fatto di soldi. La gente per i soldi fa cose incredibili. A me non importa niente, non ho mai un soldo e ogni volta li chiedo a Paolo. Ho chiesto a Cipollini se manderebbe le figlie a fare sport professionistico. E lui ha risposto: “Il problema è quando arrivano i soldi e ti si attaccano tutti dietro”. Quando Marco cominciò a guadagnare, mi guardò e mi disse: “Adesso sono diventato anche bello”».
Ti ricordi l’ultima volta che è venuto qui?
Era il 26 gennaio. Io ero di sotto e sentii aprire la porta. Lui entra e fa: «E’ permesso?». Io grido: «Chi e?». Risponde: «Non riconosci più nemmeno tuo figlio?». Vado sopra ed era chinato davanti a quel mobile là, cercando degli esami che aveva fatto a Milano, in cui si vedeva che stava benissimo. Non so a cosa gli servissero.
Credi che abbia avuto una vita felice?
Non lo so, non credo. Il ciclista lo faceva veramente con passione. L’ho sempre visto fare tanti sacrifici, non so dire quanto gli pesassero, ma in bici finché tutto è andato bene, tornava bambino. Però non l’ho visto felice quando si è fatto la casa, questa casa. Mi disse di vendere l’appartamento di via dei Mille e di venire tutti qua. Venimmo, ci siamo ancora, ma quell’appartamento l’ho tenuto – gli dissi – per i sacrifici che ci era costato. La sua vita è stata tutto un travagliare, un andare e venire. Forse un figlio avrebbe cambiato il finale…
Oggi Ilario Biondi, l’amico fotografo che ho intervistato proprio su Marco, mi chiedeva se a fine carriera secondo me Marco sarebbe rimasto nel ciclismo.
Non lo so. Quel sistema non gli piaceva, non sopportava che gli dicessero cosa fare. Per cui forse secondo me non sarebbe rimasto, anche se aiutare i giovani a trovare la loro strada gli piaceva molto. Qualche giorno fa Belli mi ha detto: «Tonina, da dilettanti ci siamo divertiti un mondo. Nei professionisti siamo diventati carne da macello».
Come è fatto il dolore per la morte di un figlio?
Non ti passa mai. Giorni fa è morto Michael Antonelli, quel ragazzino di San Marino che aveva corso con Savini. Ci sono andata quando l’hanno portato a Montecatone, all’ospedale di rieducazione. Si poteva entrare solo con la tuta addosso, ero là dentro e piangevo come una matta. «Fallo per la tua mamma – gli dicevo – fallo per il tuo papà». Gli parlavo di Marco, lo so come possono sentirsi i suoi genitori.
Il chiosco è chiuso…
Non ci vado più neanche a vedere come gli vanno le cose. Mi piaceva starci, anche d’inverno quando era un freddo cane. Arrivavi in certe mattine che le piastre non erano ancora calde e si moriva di freddo. Però era bello quando venivano e chiedevano di Marco. Lui la piadina non l’ha mai fatta, forse per qualche foto sui giornali. E’ nella mia testa, penso sempre a lui. Quando incontro qualcuno che me ne parla, me lo vedo al suo fianco che ride. E poi però penso alle ansie di quei mesi. Penso alla foto in cui tiene in braccio il figlio della Ronchi e che sei mesi dopo non c’era già più. Mengozzi a Saturnia mi disse: «Sgridalo, così viene via con me». In quel momento lo abbiamo perso. Ti ho detto cosa ho fatto l’estate scorsa?
Devo preoccuparmi?
Con la scusa di andare a salutare un amico marchigiano che era su con la compagna, siamo andati a Madonna di Campiglio. Ho prenotato all’hotel Touring, ma con il mio cognome. Ero in camera e cercavo di immaginare se fosse quella di Marco, in cui aveva rotto il vetro. Poi è venuto Stefano Bagnolini, che era su con me, e mi ha detto: «Hai capito dove siamo? Io sono alla 26, Marco era alla 27 e tu sei alla 28». Allora ho deciso di parlare con il proprietario.
Dicendo chi sei?
Sì. Lui ha detto che ricordava il casino del 5 giugno, ma anche che quando la sera prima Marco è arrivato dopo aver vinto, litigava con Gimondi e con Giannelli. Continuavano a dirgli che non doveva vincere. E’ questo il sistema che a Marco non piaceva. Continuava a dire: «Perché nessuno rompe le scatole a Cipollini che ha vinto quattro tappe e io devo sentire certe storie?».