«Siete i primi con cui parlo del team da molto tempo, sin da quando l’avventura della Qhubeka si chiuse. Ci tenevo a farlo con voi». Douglas Ryder si era effettivamente un po’ eclissato dai microfoni e dai taccuini, dopo aver tentato fino all’ultimo di salvare il Team Qhubeka travolto dai debiti, ma già allora aveva chiara l’idea che quello non era uno stop definitivo, ma solo una pausa.
Ora la squadra con affiliazione svizzera del dirigente sudafricano è pronta, con un nuovo sponsor (Q36.5, un marchio di abbigliamento con sede a Bolzano), nuovi corridori e uno spirito rinfrancato.
Quanto è stato difficile ripartire dopo la chiusura della squadra WorldTour?
Con il Covid e tutto ciò che è avvenuto in questi anni è stato difficile riavviare il discorso, pochi sponsor si sono avvicinati al ciclismo. Poi la guerra ha reso tutto ancor più arduo. E’ stato quasi un miracolo ripartire, abbiamo riportato indietro le lancette del tempo.
Tu non hai mai perso la speranza: che cosa ti ha dato la forza per andare avanti?
Non ho mai mollato, ho sempre vissuto con questo sogno, lavorando duramente per tradurre i nostri valori in un significato più grande perché il team è uno strumento per trasmettere qualcosa. Quando ho trovato Q36.5 è stato un grande colpo e so che è un rapporto che andrà sviluppandosi di continuo, ma è già incredibile dove siamo arrivati e questo mi rende molto felice.
Il tuo team ora ha nuove basi e nuovi sponsor: con il progetto umanitario della Qhubeka sei rimasto comunque coinvolto?
Certamente, Qhubeka resta una parte importante del progetto. Non siamo una squadra come le altre, siamo parte di un progetto più grande teso alla comunità, alla solidarietà sociale. Un progetto che riguarda i bambini di tutta l’Africa. Per me il team è sempre stato parte di qualcosa di più grande, per questo la sua fine fu un grande dolore, perché tante persone facevano e fanno affidamento su di noi. Questo però mi ha dato ogni giorno la forza di alzarmi e lavorare. Credo che questa ripartenza abbia un grande significato e trasmetta speranza.
Ripartire è sempre difficile: con quali presupposti hai costruito la squadra?
Innanzitutto sullo spirito con il quale tutto iniziò 10 anni fa, attraverso 3 anni di avvio e 6 nel WorldTour. Sono convinto che l’esperienza ci aiuterà a ripeterci e a migliorarci, sempre basandoci su quei valori che ci hanno permesso di rimetterci in piedi. Sapendo quel che abbiamo passato possiamo ricreare un qualcosa di cui essere orgogliosi.
Missaglia e altri nello staff con cui avevi già lavorato: hai scelto loro per ricreare lo spirito di gruppo che esisteva nella Qhubeka?
Sì, perché so che in quei 10 anni ho avuto al mio fianco le persone migliori di ogni campo, dai direttori sportivi, agli autisti dei pullman, chef, addetti stampa. Per me tutti sono essenziali nel progetto. C’è voluto tempo per ricostruire lo staff ma era un passo fondamentale perché sanno come fare. Per me è un privilegio lavorare con loro.
Quanto è importante avere Nibali nel tuo team dirigenziale?
Nibali come consulente strategico ci consente di parlare di molte cose: allenamento, preparazione, scelta dei corridori, programmazione… E’ un valore aggiunto che fa la differenza anche per dare motivazione ai corridori. E’ un vantaggio rispetto a quel che eravamo, indubbiamente.
Ci sono corridori di 13 Paesi, ma il gruppo base è italiano: perché questa scelta?
Abbiamo sempre avuto successo con gli italiani, vedi Battistella iridato U23 quand’era nel team continental o i successi di Nizzolo. C’è sempre stata un’influenza italiana e questo ha fatto la differenza. Che non ci sia un team italiano nel WorldTour è triste, è come se nella Formula Uno mancasse la Ferrari. Il ciclismo italiano è forte ed è bello averne parte nel team. Ne ho parlato con Moschetti e Brambilla, che sono motivati a trasmettere le loro esperienze agli altri. Abbiamo un buon gruppo e gli italiani si sono tutti impegnati a farlo crescere.
Hai già un’idea sui ruoli di ognuno?
Sì, ho un’idea precisa su ognuno dei 23 corridori, ma molto dipenderà dal calendario che andremo a fare. Abbiamo velocisti di peso come Moschetti e Sajnok, per le gare a tappe punteremo su Donovan e Hagen. Per le classiche avremo l’esperienza di Devriendt e Ludvigsson. Abbiamo focalizzato gli uomini in base a diverse aree, ogni gara andrà corsa col fuoco dentro. Speriamo di ottenere qualche successo, ma l’importante sarà dimostrare quell’unità che è la base per una squadra a lungo termine.
Che calendario farete?
Sto parlando con molte persone per stilare un programma, ma non è facile perché l’Uci non ha dato risposte chiare e molti organizzatori aspettano a diramare gli inviti. Dovremmo comunque iniziare dalla Spagna e poi correre molto in primavera fra Belgio e Olanda. Non nascondo che mi piacerebbe avere l’invito per un grande Giro, ma intanto ci concentriamo sui primi 3 mesi pensando a iniziare bene.
Pensi sia possibile crescere fino ad arrivare al WorldTour o è presto per parlarne?
E’ presto, ma sicuramente è l’obiettivo a lungo termine, per questo dobbiamo far bene le cose fin da subito e programmare ogni anno in modo da fare sempre passi avanti e non indietro. Fra tre anni dovremo essere fra le migliori professional e a quel punto ottenere la licenza WT.
La continental rimane?
Resterà perché è un tutt’uno con il team professional, anche dal punto di vista del rendiconto economico. Noi vogliamo un team U23 da cui prendere i più meritevoli per far fare loro qualche esperienza nel team principale e viceversa avere un team continental che possa anche far ripartire chi magari è infortunato in maniera più soft. Seguiremo con attenzione il team U23, farà un calendario appropriato compreso il Giro d’Italia U23.
Cosa ti renderebbe soddisfatto dopo la prima stagione?
Vorrei che vincessimo una manciata di gare, diciamo da 6 a 10, ma correndo sempre come una squadra, con un gruppo solido e con prestazioni valide e costanti nel tempo. Dobbiamo far vedere che ci siamo e siamo competitivi sempre mostrando gli sponsor e progredendo. Io sono convinto che con il passato che abbiamo alle spalle ci riusciremo.