La donna che abbiamo davanti ha un sottile filo di trucco e nei suoi occhi azzurri lampeggia acora la piccola Tatiana che nel 2002 conquistò l’argento della crono iridata. Nella Zolder che stava per celebrare Cipollini, Zugno e Guderzo si presero i primi due gradini nella crono delle junior. L’irriverente Tatiana fece il primo passo nel grande gruppo proprio in quell’angolo di Belgio e oggi che è sulla porta dell’ultima stagione, essere con lei nella sua Marostica ci è sembrato un modo gentile di ringraziarla per le tante emozioni. Così mentre ieri le abbiamo chiesto di parlarci delle ragazzine che tenteranno di prendere il suo posto, questa volta vogliamo portarvi nel suo mondo.
«Poco da ridere – ammicca – quella fu l’unica crono in cui la Zugno riuscì a battermi. Mi ricordo il riscaldamento con il mio tecnico Rigato, il buco nello stomaco, la tensione, la nausea. Che begli anni, che belle trasferte. Con Anna eravamo le eterne rivali, perché avevamo caratteristiche simili. Era sfida anche negli allenamenti, per paura di rimanere fuori. Il 1984 ha sfornato proprio delle belle atlete…».
Che cosa diresti alla ragazzina di allora?
Le direi di godersi di più la bicicletta. Di vivere le gare con meno tensione, senza la pressione di dover ogni volta dimostrare qualcosa. L’anno dopo Zolder, mi ero fatta uno strappo muscolare a un polpaccio. Mi toccò stare ferma per 15 giorni e piangevo ogni giorno per paura di perdere la maglia azzurra. Era un incubo, perché allora le convocazioni seguivano criteri difficili da capire. Erano i diesse che trattavano con il cittì, per cui capitava che avessi lavorato bene e ugualmente venivi lasciata a casa per fare spazio a un’altra. Per fortuna lo strappo lo feci ad agosto e i mondiali si correvano a ottobre. Da lì ho sempre vissuto il ciclismo come dover dimostrare. E forse quell’esuberanza era il modo per nascondere l’insicurezza o provare a buttarla fuori.
Quando l’hai messa da parte?
Sei sicuro che io l’abbia fatto? Non è andata via, è cambiata con il passare degli anni. Non escludo che sia rimasta e che abbia imparato a gestirla in modo diverso, cercando di trasmettere sicurezza al gruppo.
Ricordi l’argento di Verona 2004, fra le elite e alle spalle della Arndt?
La sera prima di quel mondiale, dissi a mia madre che sarei salita sul podio. Era cominciata da lontano. A febbraio avevo provato il percorso. Eravamo in ritiro a Bardolino con la nazionale e dopo i primi giri dissi a mia madre che era un percorso favoloso, ma non sapevo se mi avrebbero portata. Ogni volta che ci passavo sopra, avevo un senso di pace. Il giorno della corsa avevo la solita tensione, ma anche una lucidità pazzesca. Notavo tutto. Come per il bronzo di Innsbruck…
Era la domanda successiva: più sorpresa a Verona coi tuoi 20 anni oppure ai 34 di Innsbruck?
A Innsbruck. Sapevo di poter fare un bel mondiale. Ero totalmente esaurita nell’aver cercato la condizione, ma ero tranquilla perché sapevo che non avrei dovuto fare io la corsa. E mentre pensavo che questo mi avrebbe agevolato, Salvoldi in riunione mi disse che si aspettava molto anche da me, nonostante leader fosse la Longo.
Perché, raccontando la tua carriera, si finisce sempre a parlare dei mondiali?
Perché la mia carriera è legata ai mondiali. La mia maglia è la maglia azzurra. Pensare di saltarne uno è un coltello nel cuore. Posso saltare il Giro d’Italia o una grande classica, ma saltare il mondiale mi avrebbe demolito.
Qual è stata la nazionale più forte in cui hai corso?
Quelle da Salisburgo in avanti, con Cantele e Bronzini. Anche se vedendo le ragazze che ci sono in giro adesso, la nazionale più forte deve venire.
Che cosa fu il mondiale di Mendrisio?
Campionessa del mondo! Mendrisio fu un obiettivo ben chiaro. Dopo il bronzo alle Olimpiadi di Pechino, ai mondiali di Varese di due mesi dopo non riuscii a gestire la tensione di rappresentare l’Italia al meglio. Varese fu una batosta non indifferente. Ho pianto parecchio. Non fu un problema fisico, perché non ero male. Solo che mentalmente non riuscii a ripartire dalla medaglia olimpica. Mendrisio è stata la rivincita, per giunta dopo sei mesi senza correre per problemi fra la squadra e le Fiamme Azzurre. Quel mondiale cominciò a maggio…
Non farti pregare…
Presi la macchina e andai da sola a provare il percorso. Era il 5 maggio. Feci il primo giro e dissi. «Madonna, bello ‘sto percorso!». Nel secondo giro cominciai a immaginarmi come sarebbe stato arrivare da sola. Immaginavo la scena come una bambina. Feci tre giri, salii in macchina e chiamai il mio preparatore. Gli dissi: «Si lavora per questo. Non mi importa della fatica che mi chiederai di fare!». Anticipo la domanda: il mio preparatore era Marino Amadori. Diceva sempre che non sono un talento, ma se mi metto in testa una cosa, divento imbattibile.
Concordi con l’analisi?
Forse davvero non sono un talento, ma sono certamente un’atleta con delle qualità, che è riuscita a sconfiggere gente con valori che non avrei mai potuto avere. Il motore l’ho sempre avuto, ma la differenza l’ho fatta con la testa e con il cuore.
Testa o cuore?
Se a Innsbruck avessi ascoltato la testa, avrei detto basta. Ma quando Dino mi ha detto che davanti ne avevo due, nel cuore ho sentito una cosa ben chiara: MIA! E’ MIA!. Sono partita nell’unico punto in cui sapevo di avere mal di gambe. Perché ho pensato che se lo avevo io, dovevano averlo anche le altre. Tutti hanno capito quanto io abbia sofferto quel giorno per prendere il bronzo.
Quello fu anche l’anno del bronzo ai mondiali dell’inseguimento?
Esatto, poi dovetti lasciare la pista a malincuore. Era un bell’ambiente, ma ero stufa di non lottare più non contro il cronometro, ma contro i watt.
E’ vero che smetterai il prossimo anno?
Voglio finire il ciclo e correre la quinta Olimpiade. In assoluto avrei fatto meglio a smettere nel 2018, proprio dopo Innsbruck, ma non ho avuto la prontezza. E poi, come ho sempre detto, si smette più volentieri quando si sa cosa fare. Sto temporeggiando, ma ormai ho capito. Io sono delle Fiamme Azzurre, ma mi piacerebbe diventare tecnico della nazionale. Non so se sarei in grado sin da subito, perché devo fare dei passi. Ma è un ruolo che ho dentro. Sono diesse in corsa, l’occhio del mio diesse dalla bici. Mi manca l’ammiraglia azzurra. E se Giorgia Bronzini ha la stessa idea, devo parlarle. Voglio dirle di fare la brava. A lei la pista, a me la strada. Un accordo fra colleghe si trova sempre…