«Ieri pomeriggio ho conosciuto Silvia. Leggete bene, non ho sbagliato: ieri ho veramente conosciuto Silvia incontrando la sua famiglia, papà Riccardo, mamma Janira, suo fratello Alejandro e l’ultima arrivata Elisa, l’ho conosciuta perché lei vive ancora con loro, è lì con loro ogni giorno. E la sua famiglia è determinata ad avere giustizia e soprattutto a non farla morire invano…».
Iniziava così due giorni fa il post su Instagram di Alessandro De Marchi. Avevamo pensato tante volte di metterci in contatto con la famiglia di Silvia Piccini – la ragazza di 17 anni uccisa il 24 aprile da un’auto mentre semplicemente si stava allenando – con la rabbia addosso per l’ennesimo incidente cui si fatica a dare una spiegazione, ma proprio Alessandro ci aveva detto che sarebbe stato meglio aspettare. Poi gli hanno detto che il papà della ragazza stava organizzando una pedalata per portare il suo dolore e la sua testimonianza fino a Roma e alla fine ha suonato alla loro porta (nella foto di apertura, scattata da sua moglie Anna, Alessandro è con il giovane Alejandro, suo padre Riccardo e, in braccio a mamma Janira, ci sono Andrea De Marchi e la piccola Elisa).


L’ansia addosso
Il Rosso di Buia è tornato in ospedale. Stamattina lo operano alla clavicola e poi resteranno soltanto le costole, che ancora fanno male. Scherzando gli chiediamo se gli abbiano lasciato direttamente le chiavi della stanza, poi però il discorso va ai sentimenti che condividiamo sulla storia di Silvia e dei tanti, come lei, che sono morti per il comportamento criminale di pochi.
«In realtà – racconta Alessandro – ero in contatto con loro già da un po’, da quando durante il Tour of the Alps mi esposi per parlare di Silvia. Fu una telefonata che mi lasciò senza parole. Prima di allora non ci eravamo mai incrociati, giusto per qualche evento di ciclismo. Dopo invece ci siamo tenuti in contatto. Per la maglia rosa e quando mi sono ritirato. Così, visto che suo papà stava partendo, con Anna siamo andati a trovarli. Eravamo parecchio agitati, perché in certi casi non sai mai come porti».
Al Gp Liberazione del giorno dopo, Belletta le ha dedicato la vittoria Il 25 aprile, all’indomani della morte, un minuto di raccoglimento in tutte le corse d’Italia Anche Michele Gazzoli dedica a Silvia il suo Liberazione
Al Gp Liberazione del giorno dopo, Belletta le ha dedicato la vittoria Il 25 aprile, all’indomani della morte, un minuto di raccoglimento in tutte le corse d’Italia Anche Michele Gazzoli dedica a Silvia il suo Liberazione
Silvia era lì
Silvia era ancora lì. Chiunque si sia trovato in situazioni analoghe potrà dirvi la stessa cosa. Solo il tempo renderà il distacco tangibile, ma all’inizio non è così. E’ successo un mese e mezzo fa, ma la mamma di Silvia a un certo punto ha accompagnato Anna, in dolce attesa, a guardare degli abiti che aveva pensato di regalare.
«Ci hanno raccontato gli aneddoti della sua vita – sorride – tante piccole cose. Silvia è nata che sua mamma aveva 17 anni e forse proprio per questo era una ragazza con la testa sulle spalle, di quelle che aiutava in tutto. Andava in bici. Studiava. Le piaceva scrivere. Era legatissima a suo fratello. La stessa determinazione di donare gli organi l’aveva avuta lei quando nessuno pensava che sarebbe finita così. Siamo rimasti sbalorditi… ».


Una vicenda triste
Alessandro racconta e sia pure a distanza lo immaginiamo fissare un punto, come fa quando segue il filo dei pensieri e li racconta senza perdersi. Come quando raccontò le emozioni della sua maglia rosa, che proprio in queste ore sta completando ben altro Giro d’Italia.
«Non ci hanno dato per un solo secondo la sensazione di una famiglia colpita dal lutto – dice – quelli tristi eravamo noi due. Ci hanno accolti come se ci conoscessimo da sempre. Ci hanno raccontato cose da non scrivere sull’incidente e quello che c’è ora. La vicenda è veramente triste. Abbiamo respirato la loro determinazione nell’andare sino in fondo per avere giustizia, sfruttando l’occasione per aiutare altre famiglie e perché la morte di Silvia non sia stata invano. La bici non c’entra, la bici è ancora centrale nella loro vita. Il papà è un amatore molto soft, cui piace fare chilometri senza classifiche. E il piccolino corre da esordiente.
«Lui era quello più emozionato. Mi ha chiesto un sacco di cose. La velocità nelle volate e mi ha confessato la sua paura di sgomitare nelle fasi di corsa. L’ho guardato, ho pensato a come sono conciato e gli ho detto che forse stava chiedendo alla persona sbagliata. Quando siamo usciti da quella casa, era come se davvero avessimo conosciuto Silvia».


Dipende da noi
Cosa si può fare, Alessandro, perché questa non sia solo una delle vite rubate? Il silenzio di fondo parla di una stanza di ospedale, ma anche dello sgomento che ti assale quando ti arrovelli in questi pensieri.
«Ho anche io la paura – ammette – che passata l’ondata del dolore, si tornerà a parlare d’altro. Mi sento di dire che vanno bene le iniziative di piazza, bene far rumore, ma poi mi chiedo: che cosa facciamo nel nostro piccolo? Quando siamo in macchina e la persona che guida telefona o scrive messaggi, che cosa gli diciamo? Quando vediamo sui social i nostri amici fare foto o selfie in auto o in bici, che cosa diciamo? Io credo che finché ciascuno di noi non comincia a rendere queste attenzioni quotidiane e senza eccezioni, il vento non cambierà. E allora davvero la morte di Silvia sarà stata invano».
Il ciclismo, più che uno sport è uno stile di vita.
Ci insegna la cosa più importante: a non arrenderci mai.
Silvia Piccini





