Quando il pullman della Israel-Premier Tech entrava nel parcheggio al raduno di partenza del Tour, accanto gli camminavano diversi gendarmi ben armati. Assistevano alle operazioni di parcheggio e poi, anche se disinteressati alle cose del ciclismo, sostavano nei dintorni perché nulla turbasse i preparativi della squadra israeliana. Ugualmente dopo la tappa, così raccontano gli autisti degli altri mezzi, quello della Israel era l’unico bus a poter infrangere i limiti di velocità fino a raggiungere l’hotel assegnato. Già da un anno, dalle sue fiancate come da quelle di tutti gli altri mezzi del team, per motivi di sicurezza è stata cancellata la scritta Israel.
Quello che succede a Gaza è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno nel mondo dello sport ha pensato di fermare la squadra israeliana, come venne fatto nel 2022 per la Gazprom al tempo dell’invasione russa dell’Ucraina. Perché?


Le parole di Sylvan Adams
Non si può chiedere al ciclismo e allo sport in genere di risolvere questioni politiche di immensa tragicità, ma neppure si può rimanere indifferenti quando si muove con diversi pesi e diverse misure e ci si comporta come se nulla fosse.
La Israel-Premier Tech appartiene a Ron Baron e Sylvan Adams, miliardario canadese-israeliano e presidente del Congresso Ebraico Mondiale per la Regione di Israele. Adams era presente all’insediamento di Donald Trump e in una lettera al neo rieletto presidente americano lo aveva invitato a schierarsi apertamente a favore dell’intervento contro il “flagello” iraniano.
A febbraio invece, recatosi in visita in un’area confinante con il territorio di Gaza, annunciò investimenti per costruire infrastrutture ciclabili e sportive nella regione devastata dal massacro di Hamas del 7 ottobre 2023.
«Questi mostri – dichiarò all’agenzia JNS, Jewish News Syndicate – sono venuti qui con l’intento malvagio e premeditato di torturare, stuprare, mutilare, profanare, prendere in ostaggio il nostro popolo e distruggere il più possibile. Ma hanno fatto male i calcoli: i terroristi sono riusciti a unirci, non solo in Israele, ma tutti gli ebrei ovunque. Manterremo i nostri valori ebraici e continueremo a essere una forza positiva nel mondo. Siamo resilienti, abbiamo attraversato terribili tragedie in passato, nel corso della nostra storia».


Le parole di De Marchi
Ora che invece la tragedia sta dilaniando Gaza e nell’indifferenza sta portando alla morte per fame dei suoi abitanti, con un bilancio provvisorio di oltre 40.000 vittime (nell’attentato al rave del 7 ottobre ne furono uccisi 1.200 e 250 vennero rapiti dai terroristi di Hamas: una risposta era necessaria, ma si è decisamente passato il segno), il mondo del ciclismo tace e va avanti. E’ il periodo dei rinnovi dei contratti, il Tour è appena finito e si va verso Vuelta, mondiali ed europei. Alcuni tifosi lungo la strada hanno sventolato bandiere palestinesi, mentre al Tour nel giorno di Tolosa (foto di apertura) un ragazzo ha corso con una maglietta che inneggiava all’espulsione della squadra. Ma ovviamente nulla è accaduto a livello ufficiale.
«Farei molta fatica ora – ha dichiarato invece Alessandro De Marchi al britannico The Observer – a indossare quella maglia. Non voglio criticare nessuno perché ognuno è libero di decidere per chi correre, ma in questo momento non firmerei un contratto con la Israel. Non sarei in grado di gestire i sentimenti che provo. Nel 2021 mi diedero la possibilità di continuare a correre ai massimi livelli, mi diedero un buon contratto e un buono stipendio e io guardavo alla casa che dovevo costruire e alla mia famiglia. Anche per altri colleghi è lo stesso. Ora mi rendo conto che nella vita ci sono momenti in cui, anche se può essere difficile, è meglio seguire la propria morale. Adesso farei le cose in modo diverso. E forse come mondo del ciclismo dobbiamo dimostrare che ci preoccupiamo dei diritti umani e delle violazioni del diritto internazionale».


Le parole del Papa
Ieri a Roma più di un milione di ragazzi da tutto il mondo ha pregato per Gaza e per l’Ucraina con il nuovo Papa americano. Difficile immaginare che qualcosa cambierà. Difficile anche decidere di scrivere questo editoriale in un magazine che si occupa di ciclismo. Eppure qualcosa bisognava dire, un segnale è necessario. Gino Bartali, che salvò così tanti ebrei dalla deportazione, sarebbe rimasto in silenzio davanti a questo scempio delle vita umana?
«Noi siamo con i ragazzi di Gaza – ha detto il Papa al termine della messa – dell’Ucraina e di ogni terra insanguinata dalla guerra. Voi siete il segno che un altro mondo è possibile, un mondo di amicizia in cui i conflitti non vengono risolti con le armi ma con il dialogo».
Un mondo che esiste soltanto nei raduni religiosi? Alcuni dei politici che ieri ci hanno riempito di parole sulla grandiosità del raduno e la sua spiritualità sono gli stessi che assecondano le teorie di Trump, accolgono a braccia aperte Netanyahu e offrirebbero ristoro ai soldati israeliani stremati dalla guerra, mentre a Gaza si continua a morire per i cecchini, le bombe e la fame. Non è certo colpa dei corridori della Israel, come non era colpa di quelli della Gazprom. La colpa è come sempre del potere dei soldi. Di chi lo ha e di chi non ce l’ha: non è antisemitismo è pietà. E se è abbastanza evidente che il denaro basti spesso per comprare la felicità, di certo non è servito (finora) per comprare l’umanità. Fermare la Israel-Premier Tech sarebbe servito e probabilmente ancora servirebbe a far capire che noi non siamo d’accordo.