LA NUCIA (Spagna) – Matxin ne sa una più del diavolo. Per cui quando gli altri sono convinti di aver trovato un talento su cui scommettere, lui c’era già arrivato. La sua rete di conoscenze è tale che raramente gli sfugge qualche nome, anche se ovviamente il mondo del ciclismo è ampio e le eccezioni possono sempre capitare. Il caso di Isaac Del Toro è lampante (foto Fizza in apertura). Quando il messicano ha vinto il Tour de l’Avenir, il suo telefono è impazzito per i messaggi di gente che non aveva mai sentito. Era sfuggito però che il ragazzino di Ensenada, tesserato con la AR Monex equipaggiata con bici Giant, corresse già su una Colnago del UAE Team Emirates.
La frattura del femore
Matxin e con lui Gianetti lo avevano adocchiato da più di un anno, quando ancora gareggiava nella mountain bike, e lo avevano assistito anche nel 2022 quando la frattura del femore poteva compromettere tutto.
«Se il giorno prima della caduta – racconta – mi avessero chiesto cosa sarebbe successo se un giorno mi fossi rotto il femore, avrei detto che sarebbe stata la fine. Mi stavo allenando con la squadra, quando sono scivolato sulla ghiaia e sono finito contro il guardrail di metallo. Nessuna frattura esposta, ma un male cane. All’inizio è stato frustrante, poi vedendo che miglioravo, ho capito che sarei tornato a fare quel che più mi piaceva.
«Quando ho cominciato a correre in Europa nel 2023, mi sembrava tutto molto complicato. Mi allenavo, ma non mi sentivo bene. Nell’ultima mezz’ora, 20 minuti di gara, era come se si spegnesse l’interruttore. Certi giorni arrivavo al traguardo depresso, perché sapevo di stare bene, ma non portavo a casa niente. Invece piano piano sono riuscito a crescere, avendo sempre avuto accanto persone che mi tenevano su di morale…».
Studi interrotti
Del Toro è un ragazzo simpatico, che racconta la sua storia con lo stupore di trovarsi nel ritiro della squadra numero uno al mondo. La sua vicenda l’avevamo accennata, quando lo vedemmo arrivare terzo al Giro della Valle d’Aosta. Era solo l’anticamera di quel che sarebbe successo di lì a poco sulle strade francesi e che ha portato Gianetti a gettare la maschera, facendolo firmare fino al 2026.
Lui racconta che suo padre andava in bici e i due figli provarono tutti gli sport, finché fu deciso che sarebbe stato ciclismo e per questo di lì a poco Isaac lasciò la scuola. Uno di quei casi su cui si può discutere a lungo: puntare tutto sullo sport quando non ci sono elementi per dire che finirà bene.
«Finché un giorno – dice – fu annunciata una convocazione per atleti che avessero voluto trasferirsi in Europa. Si trattava di correre su strada e furono fatti dei test. Oggi sono al quarto anno fuori dal Messico, ma devo dire che il primo approccio fu davvero duro per il diverso livello delle corse. In più si trattava di convivere nel modo giusto con un gruppo di corridori come me, quasi fossimo l’equipaggio di un sottomarino».
Capolavoro sull’Iseran
Dopo l’incidente e le difficoltà tecniche dei primi tempi, quello che arriva al Tour de l’Avenir è un Del Toro diverso. Il Val d’Aosta gli ha dato fiducia nei suoi mezzi. Il lavoro con un diesse come Piotr Ugrumov ha portato grande concretezza. Ha smesso di cadere tanto e si è scoperto forte in salita e anche in discesa. Eppure nella cronosquadre il Messico si piazza 23° su 27 squadre al via. Il distacco di Isaac è di 2 minuti. Eppure non c’è niente di ancora scritto.
Del Toro vince infatti l’arrivo durissimo al Col de la Loze, davanti a Riccitello, Piganzoli e Pellizzari. Il giorno dopo si fanno una crono al mattino e il Moncenisio al pomeriggio: perde in entrambi i casi e il suo ritardo al tramonto è di 56 secondi dall’americano. Ma il capolavoro è alle porte. Sfruttando l’Iseran dell’ultima tappa, infatti, nel giorno della vittoria di Pellizzari, Del Toro annienta Riccitello (magra figura per uno che ha corso un bel Giro d’Italia dei pro’) e conquista la classifica finale.
«Ho sempre cercato di restare calmo – dice – concentrandomi solo su ciò che stava accadendo e che mi riguardava direttamente. Pensavo a restare fresco per essere lucido, spingere ogni giorno e tenere il gruppo sotto pressione nei momenti difficili. Andavo forte in modo che tutti fossero costretti a farlo. Non mi ero mai sentito così sicuro in bicicletta, ma ero anche preoccupato perché non sapevo se e quando quel famoso interruttore sarebbe scattato. Invece sono arrivato sino in fondo e ho vinto. E’ stata una grande liberazione, perché finalmente c’è stata la svolta che aspettavo».
Serve una squadra
Il telefono ha cominciato a squillare e la casella dei messaggi ad essere intasata. «Ho iniziato a ricevere messaggi e chiamate – sorride Del Toro divertito – da persone che non conoscevo, era davvero un caos. Onestamente non riuscivo nemmeno ad allenarmi. E così ho capito che avrei dovuto prendere una decisione.
«Ho iniziato a parlare con le varie squadre, ma non è stato facile. Vengo da un altro Paese, da un’altra cultura, da un altro continente e l’ultima cosa che voglio è sentirmi a disagio a così tanti chilometri dalla mia casa. Ho 20 anni e ho molto da imparare, per questo per ora ho deciso di firmare qui. Mi hanno dato l’attenzione di cui avevo bisogno e sono molto felice, perché credo di aver preso la decisione giusta. E’ fantastico poter mangiare ogni giorno allo stesso tavolo con tutti questi campioni».
Gli occhi del bambino
Però, nel fiume di parole che dice e che memorizziamo in attesa di raccontarle, l’ultimo colpo d’occhio su Del Toro parla di un ragazzino che per inseguire il sogno ha lasciato tutto ciò di cui avrebbe magari avuto bisogno per crescere in modo completo.
«Passiamo 11 mesi all’anno via da casa – dice – e lo facciamo con grande piacere, ma è comunque complicato. Sono fuori dal mio Paese e dalla mia città, non vivo con la mia famiglia, ma con persone fantastiche che diventano come fratelli. Però non è la stessa cosa. Sono sempre stata una persona molto concentrata e non ho mai pensato di fare nulla che non sia parte del ciclismo. Mi alleno, recupero e mi preparo per il giorno dopo. Il fatto di essere qui e di farlo in modo più professionale dà un senso ai tanti sacrifici e al fatto di aver dovuto colmare la differenza che c’è fra essere un giovane corridore in Europa ed esserlo invece in Messico. Ci sono differenze, ci sono ancora grandi differenze…».