A 67 anni, Claudio Corti si gode il meritato riposo e la bici la usa solo per tenersi in forma («Ho ripreso a pedalare dopo trent’anni, per tenermi un po’ in esercizio…»). Una storia la sua durata qualcosa come 45 anni, prima da corridore e poi da diesse, girando il mondo e scoprendo campioni. Ne avevamo parlato poco tempo fa a proposito di Daniel Martinez, ultimo prodotto di una lunga esperienza vissuta in Colombia, in quella che è stata l’ultima tappa del suo girovagare: «Quando nel 2016 il ministro dello sport è cambiato mi hanno rimosso dall’incarico, anche perché il budget che avevamo a disposizione era molto esiguo e non ci si stava più con le spese per girare il mondo per le gare».
A quel punto, Corti ha provato a sondare il terreno in giro, fatto progetti, sentito sponsor, ma senza una squadra rientrare in carovana si è rivelato impossibile.
«Provate a guardare quanti sono rimasti fuori come me: Ferretti, Stanga, lo stesso Amadio prima della chiamata della Federazione… Un patrimonio di esperienze gettato via, se sei senza team non hai possibilità di trovare spazi. A quel punto mi sono deciso a mettermi tutto alle spalle e godermi la pensione. D’altronde con quello che ho fatto, non me la sentivo di rimettermi in gioco per qualcosa di piccolo».
L’importanza di lasciare casa
Non che Claudio si sia allontanato da quel mondo che è stato la sua vita. Intanto è presidente onorario della società ciclistica giovanile nel suo paese, Capriolo e un occhio ai più giovani lo getta sempre volentieri. Poi guarda alle gare ciclistiche vedendo in gara tanti che hanno iniziato con lui.
«Ad esempio Esteban Chaves . dice – viveva vicino casa mia a Bergamo, lo portai in Italia che non lo conosceva nessuno e finì per sfiorare un Giro d’Italia. Lo perse solo perché Nibali s’inventò un’azione delle sue quando ormai sembrava spacciato. Ma Esteban ha avuto un ruolo importante, ha fatto da traino ai suoi connazionali».
Questo è un concetto importante che Corti vuole sviluppare: «Il problema per molti colombiani era che rimanevano confinati nel loro mondo, soffrivano di nostalgia nel lasciare casa ed evitavano di farlo. Ma solo così puoi emergere. Chaves ha aperto la strada, i giovani hanno capito che se volevano vivere di ciclismo dovevano trasferirsi e guadagnando bene potevano portare con sé la famiglia».
Martinez, cresciuto nei sacrifici
Di Corti avevamo parlato a proposito di Martinez: «Rispecchia quanto ho detto. Agli inizi non era un fuoriclasse, ma rispetto agli altri aveva una determinazione inconsueta. Voleva essere pro’ a tutti i costi e si è sacrificato per questo, è cresciuto e ora è uno dei candidati alla vittoria del prossimo Tour. Ma a fronte di corridori che hanno investito e ottenuto, ce ne sono altri che avevano grandi mezzi e sono rimasti lì, come ad esempio Fabio Duarte che secondo me poteva essere un campione, quando vinse il titolo mondiale U23 nel 2008 sembrava destinato a grandi cose, ma era debole di carattere».
La scoperta di Froome
La storia di Corti non è legata solo ai colombiani. A lui ad esempio si deve la scoperta di un talento come Chris Froome.
«Eravamo andati a fare una gara in Sud Africa, nel 2007 – racconta – il Giro del Capo, avevamo la squadra Barloworld incentrata su Felix Cardenas (che finì 2° dietro il compagno di team russo Efimkin, ndr) e noto questo spilungone che in salita teneva botta con agilità. Al tempo aveva ancora il passaporto kenyano, la cosa mi colpì e decisi di portarlo nel team. L’anno dopo decisi di provarlo al Tour de France: il penultimo giorno, nella cronometro vinta da Cancellara, finì 14°. Era la prima volta che affrontava una corsa di 3 settimane, aveva lavorato tanto per i compagni eppure aveva ancora forza e voglia di lottare, capii che c’era davvero del buono in quel ragazzo e lo presi sotto la mia custodia».
Froome e l’auto in prestito…
Il loro rapporto andava anche oltre quello legato al ciclismo: «Viveva vicino casa, spesso mi chiedeva la macchina in prestito e gli davo quella di mia moglie per uscire la sera. Aveva grandi mezzi, ma doveva trovare la sua dimensione. In una tappa del Giro, con la scalata del San Luca era andato in fuga con 15 corridori e quel giorno aveva la gamba per vincere, ma finì 4°. Aveva bisogno di maturare anche mentalmente, non solo nel fisico.
«Si vedeva che poteva fare tanto, certo non avrei mai pensato allora che avrebbe vinto così tanto nei grandi Giri. A ben guardare il meglio della Ineos è passato per le mie mani, come Thomas. Nessuno pensava che un pistard come lui potesse avere una grande carriera da stradista, ma Geraint è sempre stato uno che ha avuto piacere di andare in bici e questo lo si vede anche adesso, nella fase discendente della carriera».
Torniamo a Froome, potrà tornare a emergere? «Dubito, ha preso troppe legnate in questi ultimi anni. La ripresa da un infortunio come il suo è già difficile, ma sopra ci si sono aggiunte tante delusioni che hanno fiaccato la sua autostima. Sono stati anni troppo difficili, ha perso l’abitudine a lottare con i migliori. Un corridore per emergere deve crederci al 100 per cento, lui prima che i compagni di squadra o i dirigenti o chiunque gli sia intorno. I risultati nascono dal di dentro».
La mancanza degli italiani
Guardando questo ciclismo da fuori, Corti non può che considerarlo lontano dai suoi schemi.
«Sono sempre stupito e meravigliato – dice – da quel che fanno i giovani attuali, ma io credo che sia generato anche dal fatto che prima dei giovani alla Evenepoel e Pogacar di oggi c’è stato un vuoto generazionale. Campioni c’erano, ma si sono consumati presto: uno come Quintana nei suoi primi tre anni, nelle corse a tappe non finiva mai fuori dal podio, ma poi non ha retto. Io vedo in questi ragazzi una forza e un entusiasmo che quelli di prima non avevano, forse neanche la mia generazione. Io i primi anni da pro’ facevo fatica, ci ho messo anni per trovare la mia dimensione. Mi dispiace solo che fra questi giovani campioni che stanno segnando un’epoca non ci sia un italiano…».