Purito era l’uomo dei muri. Fino a un certo punto il più celebre da lui domato, certamente il più ripido, rimase quello di Montelupone alla Tirreno-Adriatico. Poi però venne il Muro d’Huy e a quel punto la sua reputazione esplose. Perciò, anche se in seguito Joaquim Rodriguez avrebbe vinto per due volte il Lombardia, la sua immagine in cima all’arrivo della Freccia ne è diventata un po’ il manifesto.
Lo intercettiamo appena atterrato all’aeroporto di Barcellona da Ibiza, dove ha partecipato a una gara di mountain bike.
«Un viaggio tranquillo – dice – con le famiglie al seguito. Mi serve fare movimento per non mettere su la pancia. E adesso torno verso Andorra, visto che vivo ancora lassù. Fra tutti i corridori che ci abitano e che incontro ogni giorno, magari c’è anche quello che vincerà la Freccia Vallone…».
Fra gioia e brutti colpi
Purito sorride sempre anche adesso. In tre sole occasioni in particolare abbiamo visto spegnersi il suo proverbiale buon umore. Al Giro del 2012, quando Hesjedal gli sfilò la maglia rosa nell’ultima crono di Milano. Nella Vuelta dello stesso anno, quando Contador lo spodestò a Fuente Dé. E poi al mondiale del 2013 a Firenze, quando si fidò di Valverde che invece a suo avviso spalancò la porta a Rui Costa.
«Ma di tutte queste cose – ironizza – preferisco non parlare. Diciamo che non sono mai successe. E comunque con Hesjedal ho corso ancora una gara di mountain bike in Costa Rica organizzata da Andrei Amador. Non era messo molto bene, la vita a volte è strana. Comunque meglio parlare della Freccia Vallone e della prima volta che la vidi. Ero già professionista, al primo anno. La seguii in televisione, mi pare che la vinse Verbrugghe. Mi piacque così tanto che chiamai Manolo Saiz, mio direttore di allora, e gli chiesi se a suo avviso poteva venirmi bene. E lui mi disse: “Tranquillo, che un anno o l’altro la vinci”. Io pensavo solo a Lombardia e Liegi, che però per me erano più difficili da vincere…».
Apriamo l’album dei ricordi: cosa ci dici allora della Freccia Vallone?
Una corsa dura dura, che negli anni ha fatto tanti percorsi diversi, ma ormai si è stabilizzata sulla tipologia di quando l’ho vinta io. E’ successo una sola volta, anche se in altre occasioni ci sono andato vicino. Sul Muro d’Huy ho vinto anche al Tour del 2015, battendo Froome. Un’altra edizione la vinse Dani Moreno, vestito come me dalla Katusha e grande amico. Per me quella del 2012 fu la prima classica della carriera.
Come si vince?
E’ prima di tutto un fatto di posizione. Se sull’ultimo Muro sei indietro, c’è poco da fare. Poi dipende dalle gambe, ognuno è diverso. Valverde poteva aspettare gli ultimi 100 metri, per me era meglio partire ai 400.
Cosa ricordi di quella vittoria?
Alla partenza proprio noi della Katusha organizzammo un ventaglio. Eravamo tutti scalatori, l’unico passista era Luca Paolini. Venne fuori una corsa spettacolare. Tirammo dalla partenza e vincemmo la corsa, facemmo tutti un gran lavoro.
Come mai tanta forza su quei muri?
Penso perché sono piccolino (è alto 1,69 per 58 chili) e nessuno si aspettava che in volata io potessi avere quello spunto. Invece avevo un plus di esplosività proprio su quelle pendenze. E poi era un discorso di tattica. A Montelupone, per partire aspettavano tutti il punto più duro. Io avevo individuato invece un passaggio in cui andavamo tutti a 5 all’ora. Aspettavo quel punto e lì cambiavo ritmo.
Vedrai la Freccia in tivù?
Certo, mi piace seguire gli amici che ancora ho nel gruppo. Soprattutto quelli di Andorra.
Da spagnolo, pensi che Valverde abbia ancora qualche chance?
Sono sicuro che se vince, non smette e fa un anno in più. Comunque in squadra è l’unico che va forte. In quella serie su Netflix, Eusebio Unzue non dice in modo secco che sia l’ultimo anno. Dice: vediamo se davvero è la fine. Io faccio fatica a pensare che Alejandro pensi di smettere, figurarsi se venisse una vittoria importante…