Nell’era del ciclismo specialistico ci è tornato alla mente un personaggio degli anni Ottanta, un corridore che sapeva emergere ovunque, nelle classiche come nei grandi Giri, pur non essendo (e lui stesso non perde occasione per ripeterlo) un campione. I più anziani ricorderanno la figura di Silvano Contini (nella foto d’apertura ai mondiali 1982, il suo anno d’oro), colui che riaprì la storia della Liegi-Bastogne-Liegi come la “course des italiens”, prima dei successi a ripetizione di Argentin, Bartoli e Bettini con condimento di altre vittorie tricolori.
Contini chiuse la sua carriera del 1990, poi non se ne è saputo più nulla, nel senso che è uscito dal mondo delle due ruote. Nessun incarico neanche a livello locale, nessuna ospitata televisiva. E’ rientrato nei ranghi, ma la curiosità di sapere che fine ha fatto ci è rimasta.
Da allora Contini, oggi 63 enne, si è sempre dedicato alla falegnameria di famiglia: «Ero stanco di girare il mondo – racconta – il ciclismo si era allontanato dal mio modo di essere. Misi la bici in soffitta e ce l’ho tenuta per 25 anni, ogni tanto sentivo qualche collega dei tempi, guardavo le gare in Tv ma nient’altro. Poi pian piano è tornata la nostalgia e ho ripreso in mano la bici: nei fine settimana mi vedo con Saronni al negozio di Luigi Botteon (ex pro’ dal 1987 al 1991) e ci facciamo una pedalata tranquilla, chiacchierando sul passato e il presente».
Con Saronni è rimasta quest’amicizia salda e duratura, mentre in gara ve le davate di santa ragione…
Eravamo amici già allora, avevamo praticamente iniziato insieme, ci affrontavamo già da junior. Ma non eravamo la stessa cosa: lui era un fuoriclasse, che ha vinto dappertutto e trionfato in corse importantissime, io ero un buon corridore che si difendeva un po’ su ogni terreno e che alla fine ha portato a casa un buon numero di vittorie. Oltretutto con Beppe abbiamo condiviso un anno alla Del Tongo e due alla Malvor (dal 1987 al 1989, ndr) dove trovammo anche Giovanni Visentini.
Dicevi di aver ottenuto un buon numero di vittorie: 48 per la precisione, con la Liegi come perla ma anche altri importanti traguardi come Giro di Germania, Giro dei Paesi Baschi… Qual era la tua forza?
Mi sono sempre applicato con forza e dedizione, ero molto serio nella mia vita d’atleta, anche se negli ultimi anni uscirono fuori tante storielle sulla mia vita privata. Negli ultimi due anni ero meno concentrato, sentivo che quello non era più il mio ambiente e decisi di chiudere. Tecnicamente me la cavavo dappertutto, ma credo che sia stata la testa la mia arma in più.
Tu passasti professionista molto presto, a 19 anni.
In quel periodo accadde lo stesso proprio con Saronni e Visentini, ma rispetto a oggi c’è una differenza sostanziale: ci davano il tempo per crescere. Io nel 1978 passai grazie alla Bianchi, ma in quella squadra c’era gente come Gimondi, De Muynck che vinse il Giro d’Italia, Knudsen, Van Linden che era un grande velocista. Non mi chiedevano di vincere, solo di imparare, come fossi a scuola e di crescere per gradi. E’ stata la scelta giusta, da lì sono venuti i risultati. Oggi invece vedo che tutto è esasperato.
Quando si parla di te la mente torna a quel giorno di primavera del 1982, quando trionfasti a Liegi. Che cosa ti è rimasto nella memoria di quel giorno?
Tutto. Quando ripenso a quello sprint con De Wolf, a quella ruota davanti sulla linea del traguardo mi sembra di averla vista ieri, di aver provato ieri quell’immensa gioia derivata dalla constatazione che avevo vinto. Sapevo di star bene, venivo dalla mia unica partecipazione alla Parigi-Roubaix chiusa al 25° posto pur non essendo la mia gara. Per vincere però serve che tutto collimi alla perfezione e quel giorno tutto girò davvero per il verso giusto. Ero un corridore che negli arrivi ristretti poteva dire la sua. Mi era già capitato un arrivo a due al Lombardia 1979, ma allora avevo di fronte un certo Hinault…
Quell’Hinault con il quale battagliasti a lungo al Giro del 1982, chiuso al terzo posto.
Io ho avuto a che fare con grandi campioni e un fuoriclasse assoluto, che è alla stregua dei Coppi e Merckx. Molti paragonano i campioni di oggi a quelli del passato, ma bisogna andarci piano con i paragoni, quelli erano uomini speciali. Pogacar è bravissimo, ma deve ancora far vedere e vincere tanto prima di poter essere inserito in quella categoria.
C’è in vista un nuovo Contini?
E’ difficile da dire, giovani di valore ne abbiamo, il problema è che mancano le squadre. Ai miei tempi c’erano 8-10 team internazionali in Italia, i giovani avevano modo di poter passare e come detto essere lasciati crescere con calma, oggi il ciclismo ha costi enormi. Noi nel team eravamo al massimo in 15 corridori, ora ce ne sono 30 senza contare tutto il personale. Però un nome mi sento di farlo…
Chi?
Alessandro Covi, perché Saronni lo sta facendo crescere alla vecchia maniera, in un team di grandi corridori nel quale sta imparando. Beppe me ne dice un gran bene e penso che ci darà soddisfazioni quando sarà il momento giusto.