Chiamatela arte, mestiere o semplicemente “modo di andare in bici”, ma la doppia fila è una delle “figure” più affascianti del ciclismo, almeno per chi ha un occhio tecnico. Un corridore tira e quello a fianco si lascia sfilare, quello davanti si sposta e ne subentra un altro. E avanti così, per chilometri e chilometri. Saperla fare “a modino”, come direbbero i toscani, è armonia pura. Ma non è affatto facile e per questo ce lo spiega Mario Scirea, passistone doc, ai tempi cronoman, ma anche apripista, gregario e direttore sportivo, che ha fatto della pianura il terreno ideale della sua carriera.
E la doppia fila, salvo casi più unici che rari, si fa proprio in pianura. Quando la velocità è (o deve) essere alta, quando c’è vento, quando si lotta con il cronometro, quando c’è da chiudere una fuga o da lanciare uno sprint.
Il treno della Saeco
E con Scirea partiamo proprio da quest’ultima situazione. Eh sì, perché Mario era uno degli uomini più fidati di Mario Cipollini.
«Si girava in doppia fila per chiudere le fughe – racconta Scirea – Negli anni avevamo capito quando entrare in azione. Valutavamo la consistenza della fuga, chi e in quanti erano davanti, e poi gestivamo il distacco, cioè quanto perdere, sapendo che fino a 4-5 corridori, potevamo limare un minuto ogni 10 chilometri. Se invece gli attaccanti erano di più, non lasciavamo tanto spazio. Poi questo si faceva in tempi in cui le squadre erano composte da nove corridori. E noi alla Saeco eravamo in sette a lavorare per Mario!
«All’inizio tiravo… all’inizio! Poi un paio di volte mi capitò di fare l’ultimo uomo e così Mario mi volle come penultimo, cioè colui che avrebbe dovuto portarlo dai -2 chilometri ai 700 metri. Gli era piaciuta la velocità che riuscivo a tenere: così alta che nessuno poteva inserirsi. Ero il penultimo, perché dopo di me, entrava in azione Silvio Martinello che lo portava fino ai 250 metri, poi toccava a Cipollini.
«Treni e doppie file come quelle non ci sono più state. Neanche quando sono stato direttore sportivo, forse perché alla Liquigas si curava molto la classifica generale e non si dava troppo spazio al velocista, nonostante all’epoca ci fossero dei giovani promettenti come Guarnieri e Viviani».
Doppia fila nel vento
Secondo Scirea ci sono vari tipi di doppia fila… quella da finale, quella “da lontano”, quella nel vento… In tal senso resta memorabile la tappa di Brindisi, all’ultimo Giro d’Italia.
«Dipende dall’obiettivo e da quanti corridori hai. Se per esempio vuoi attaccare nel vento e aprire i ventagli allora chi tira si deve spostare sul lato della strada ed espone il resto del gruppo al vento. L’andatura deve essere molto forte e i cambi molto rapidi. Devi portare il gruppo sul ciglio della strada. Ma può succedere che, sempre nel vento, ci si debba difendere e così fai la doppia fila su tutta la carreggiata. S’imposta un’andatura regolare che protegge».
Regolare e da finale
E quando si va regolari? E’ questa la classica situazione in cui bisogna richiudere su una fuga e il terreno è prevalentemente pianeggiante.
«In questo caso – riprende Scirea – l’obiettivo è far girare i corridori: deve essere un continuo movimento. Ma la velocità e la rapidità dai cambi dipende da quanto si è lontani dal traguardo».
Nel caso in cui si è lontani bisogna mantenere il ritmo, vicino all’arrivo il tutto diventa più frenetico. Le “trenate” di chi è in testa si accorciano ma la velocità è più alta.
Armonia cronosquadre
E’ in questa situazione che meglio di tutte si può apprezzare questo gesto tecnico. Vedere un team che gira bene in doppia fila è armonia totale, quasi un balletto itinerante sull’asfalto. I ragazzi neanche si guardano tra loro pur viaggiando sul filo dei 70 orari e tra una ruota posteriore e una anteriore ci sono appena 7-10 centimetri.
«Per una cronosquadre c’è anche una preparazione diversa. Oggi vediamo che d’inverno molti team provano questo esercizio. Inoltre tutti i corridori hanno la bici da crono e ci escono non meno di una volta a settimana, quindi sono anche abituati a condurre questa particolare bici.
«L’ideale è mettere un passista e un “non passista” (uno scalatore, un velocista…). Bisogna alternarli. Perché c’è un dogma da rispettare: non abbassare la velocità. Se s’inizia a fare l’elastico si spezza l’armonia e di sicuro qualcuno si stacca. Mai passare da 70 a 58 all’ora e ritornare a 68.
«Poi tanto dipende da chi tira. Io da ds ho avuto anche Ganna. Lui tirava anche per un chilometro, quello che lo seguiva faceva 200 metri per di non abbassare la velocità di Pippo. Ma era giusto così, in questo modo il treno viaggiava a ritmo costante. Se un corridore non ce la fa, meglio che salti un cambio o due, piuttosto che vada in testa e non possa mantenere la velocità».
Il momento del cambio
Ma il corridore in testa come capisce quando è il momento di spostarsi? Una volta si diceva di spingere forte quando quando il mozzo anteriore di chi doveva tirare era arrivato all’altezza di quello posteriore del corridore che si era appena spostato. E chi si spostava prima di “mollare” doveva aspettare quel paio di pedalate.
«No, chi cambia deve spostarsi in modo “secco” – spiega Scirea – e in quel momento chi segue capisce che tocca a lui. Deve spingere subito forte. Con il cambio “mezzo e mezzo” si rischia che chi segue non capisca bene che è il suo turno . Quell’incertezza crea un abbassamento della velocità (e anche un dispendio energetico, visto che comunque si prende più aria, ndr). Chi si sposta deve farlo in modo deciso e restare molto vicino ai compagni, andando indietro nel lato più ventoso così da proteggere la fila.
«Mentre va dietro, per i primi 2-3 corridori, a seconda di quanti sono, che gli sfilano a fianco deve accarezzare i pedali e poi deve riprendere a spingere. Deve riaccordarsi senza fare la volata, altrimenti fa un cambio o due, ma al terzo salta. Tra volata e tirata accumulerebbe troppo acido lattico».