“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”, cantava De Gregori. E forse questo vale anche per un ciclista, ma per il nostro mondo contano, e tanto, anche i numeri. E Pino Toni, che di numeri se ne intende, ne ha visti passare di corridori: qualcuno era meno forte, qualcun altro è diventato un campione. Ma cosa distingue i primi dai secondi?
Per capirci: quando Damiano Caruso (in azzurro nella foto di apertura) andò dalla Sicilia alla Toscana, Giuseppe Di Fresco, il suo diesse poi della Mastromarco, lo portò da Toni. Fecero il test e il coach disse che c’era margine per farne un corridore. Quando Riche Porte andò dalla Tasmania alla Toscana, sempre Di Fresco lo portò da Toni. Fecero il solito test e l’esito fu lo stesso. E così via con tanti altri.
Da Caruso a Verre
«La lista è lunga e l’ultimo è Alessandro Verre – dice Toni – lo seguo io, poi però mi confronto con Valoti e Fusi. Non seguo la sua parte “amministrativa” ma qualche consiglio sulle squadre dove andare glielo dò. Immagino che presto possa passare pro’ dopo un Giro U23 come quello che ha fatto. L’ho preso l’anno scorso, alla ripresa post lockdown. Non si trovava molto bene con il suo precedente preparatore e abbiamo iniziato a lavorare insieme.
«Come vedo i campioni mi chiedevate… Bè, i numeri dei test contano molto, ma posso dire che ormai li sento. Sì, sento il rumore del cicloergometro. Ho la fortuna di utilizzare da oltre 20 anni i macchinari migliori, Srm, di svolgere lo stesso test e dal rumore che fanno mentre sono sul cicloergometro già capisco molto. Poi valuto anche la passione del ragazzo, il suo impegno…
«Il povero Antonio Fradusco (il tecnico romano scomparso il 31 maggio 2020, ndr) mi portò Valerio Conti quando era un allievo di primo anno e si capì subito che poteva fare bene, anche se era un ragazzino. Fece lo stesso con Antonio Tiberi, ancor prima che passasse alla Franco Ballerini. Anche se caratterialmente sono diversi, si vedeva che avevano qualcosa di buono. Si vedeva dal colpo di pedale».
Incrementale spietato
Il test di cui parla Toni è il classico incrementale: tutti partono da uno stesso wattaggio (molto basso) e per tutti ogni minuto l’incremento della resistenza (wattaggio) è lo stesso. Chi più dura è più forte.
«Poi chiaramente ci sono anche altri test, più evoluti che si basano sul consumo energetico e la produzione di lattato, ma quello incrementale resta alla base. Vedo i loro sguardi e i loro comportamenti, il modo in cui soffrono… Anche se questi sono aspetti che possono cambiare tra corridore e corridore e anche nel tempo. Parlando degli ultimi, per esempio, Ponomar è decisamente diverso da Tiberi. Andrii è molto più emancipato, più indipendente, Antonio è più timido, ma entrambi vanno forte.
«Una cosa però non cambia ed è la tecnica. Se ti arriva uno junior e devi lavorarci sulla tecnica, non è un buon segno. A quell’età è difficile».
Tecnica già acquisita
Ma cosa si intende per tecnica? Il coach toscano parla proprio di pedalata, di scioltezza sulla bici, di come si muove l’atleta quando è in sella, di fluidità.
«E poi riconosco subito chi è più “sgamato”. Lo vedo già da come si sistemano sul cicloergometro. Quelli meno esperti riproducono le misure della bici, quelli più scaltri riportano misure più corte, come in salita quando prendi il manubrio nella parte alta. Questo è un atteggiamento tipico di chi già sa. Sa che in quel modo la prestazione sul cicloergometro migliora. Ha angoli più aperti: respira meglio e soprattutto chiude meno l’arteria femorale che consente il passaggio di sangue alle gambe».
Il buongiorno si vede dal mattino
«Chi non andava nei test e poi è diventato forte… – ci pensa un po’ Toni – no, non ce sono. Semmai il contrario. C’è chi andava forte e poi si è perso. Uno che mi colpì fu Edward Beltran, arrivò secondo nel Giro Bio vinto da Betancur. Fece un test eccezionale. Doveva passare con la Ceramica Flaminia ma poi la squadra saltò, prese peso, si perse… Su di lui ci avrei scommesso».
Eppure tra i campioni che segue Toni, a suo dire, il numero uno non è uno stradista ma è un biker portoghese che corre in una squadra italiana (Dmt Racing Team): Tiago Ferreira, già campione del mondo ed europeo marathon.
«Tiago – dice il preparatore toscano – l’ho conosciuto che aveva già 29 anni, ma si presentò da me con valori di tutto rispetto, facendo meglio del miglior Tony Martin. Lui pone attenzione su tutto, quando arrivò mi tempestò di domande. Fa paura».
Giovani e limiti
Già, le domande: cosa chiedono i giovani atleti al coach? Una delle richieste più frequenti, che forse provengono dai team, è la paura di essere “già troppo in forma”.
«I ragazzi hanno già degli obiettivi, che sia la corsa di paese o un appuntamento più importante e vogliono arrivarci al top, mentre non capiscono che devono crescere in continuazione. I giovani da gennaio a marzo sono diversi, così come da marzo ad ottobre. E da novembre a febbraio devono continuare a crescere. Devo fargli capire che se lavorano bene, se osservano i giusti periodi di recupero non hanno un picco, ma una crescita costante. In quegli anni (tra juniores e U23, ndr) acquisiscono forza, progrediscono.
«Proprio Verre, per esempio, aveva paura di essere già troppo in forma per il Giro. Ma troppo in forma rispetto a cosa, mi chiedo? Se lo avessi rallentato, non avrei tirato fuori il suo potenziale. Perché avrei dovuto porgli dei limiti? Intanto, dico io, troviamoli questi limiti, poi semmai li manteniamo. Ma se in fase di crescita tu non spingi, non puoi sapere dove puoi arrivare. Tanto più in un Giro under 23 che è molto importante e può cambiarti la carriera. Per trovare i famosi picchi di forma, ne hanno di tempo…».