Tutte le mattine alle 7,45 Cristiano De Rosa apre i cancelli dell’azienda e aspetta l’arrivo degli operai. Cusano Milanino è sospesa tra un filo di paura e la necessità di lavorare. Il signor Ugo, fondatore nel 1953 della Cicli De Rosa, si affaccia quando capita e sempre avendo cura di proteggersi al meglio. Sua moglie Mariuccia invece esce come se nulla fosse, va in ufficio e si fa carico come sempre delle fatture.
Stamattina sono partiti gli ultimi furgoni della Cofidis, con le bici per i dieci nuovi arrivati. E la curiosità di questa immersione in azienda è proprio capire in che modo l’esperienza di un team si traduca in vantaggi tecnologici per chi le bici le produce. Partiamo da qui, ma il discorso prenderà le direzioni più disparate.
«Oggi i rapporti con le squadre – dice Cristiano – sono diversi da una volta. Ci sono i direttori sportivi e i capi meccanici. Alcuni lasciamoli stare, per fortuna ci sono quelli che studiano le caratteristiche dei prodotti e si documentano. E poi ci sono i corridori come Elia Viviani, cui potrei chiedere tranquillamente consulenze sui materiali, certo che me le darebbe. Lavoriamo quotidianamente per corridori come lui, per cercare l’evoluzione e la performance del carbonio ad alto modulo e delle resine. La bici di un professionista, che poi è la bici che va in produzione, deve essere sicura, guidabile e leggera. Una volta non era così».
Perché, com’era una volta?
C’è stata una fase storica da cui tutti noi siamo nati in cui, grazie all’immensa sapienza di alcuni artigiani fra cui mio papà, si puntava unicamente alla leggerezza. Oggi abbiamo parametri che ci consentono di valutare la flessione e la deformazione di ogni parte del telaio. Un po’ come le Superbike, che sono le stesse moto di produzione. Noi qui produciamo soltanto biciclette del servizio corse, con un approccio diverso rispetto ad allora. Le bici di oggi vanno forte e non è un caso che i terreni in cui si decidono tante corse siano la discesa e le crono, cioè le fasi in cui le bici sono spinte al limite.
Un atleta come Viviani entra anche nel discorso delle geometrie della sua bici?
Il discorso non è legato tanto ad angoli e misure, quanto piuttosto al bilanciamento del telaio e al fatto che non disperda potenza. Elia fa 1.500 watt, ha bisogno che la sua bici vada dritta anche quando lui dà il massimo. Ci sono software che permettono di capire come rinforzare le scatole del movimento centrale. Una volta mio padre per la bici di un velocista metteva un tubo più grande. Noi oggi ragioniamo sull’aumento della quantità di carbonio e di conseguenza della resina, che fa aumentare il peso.
Rigidità contro leggerezza?
Per uno come Viviani serve qualcosa di più nella scatola. Quindi qualche pezza in più di carbonio ad alto modulo e resina leggera. Abbiamo uno stampo solo per lui, anche se una bici così me la sono fatta anch’io. Certe cose sarebbe quasi meglio non dirle in squadra, per evitare che si creino gelosie. Abbiamo scoperto grazie a Pininfarina che differenza ci sia fra una bici bella e una bici performante.
Qual è?
Ci sono dei software ideati per altri contesti che permettono di valutare in modo completo l’efficienza di una bici. Veniamo da abitudini sanissime, dettate dall’esperienza, ma quando si punta sulla performance serve conoscenza. Fra la prima SK e la seconda, io preferivo la prima, perché mi piaceva di più la sezione del tubo orizzontale. Eppure, dati alla mano, ci hanno dimostrato che per prestazioni vince la seconda. E a quel punto non c’è stato più nulla di cui parlare.
Hai detto: veniamo da abitudini dettate dall’esperienza…
Per fare le bici oggi devi avere un background da… metallaro. L’acciaio, l’alluminio e il titanio. Costruire telai con i tubi e con i vari materiali ci ha permesso di capire tante cose, arrendendoci davanti al fatto che soltanto il carbonio ha permesso di cambiare il disegno dei tubi.
Il peso ha smesso di essere l’unica bussola in De Rosa?
Il peso va ragionato e dipende da come viene ripartito. Possiamo fare un telaio da 300 grammi e arrivare a 6,8 chili soltanto con i componenti. Oppure un telaio da 3 chili e arrivare al peso con tutto il resto. Abbiamo la fortuna di lavorare con aziende molto preparate. In Campagnolo sono maniacali per l’affidabilità di ogni parte che producono, per cui sappiamo che quello è il peso necessario perché il componente non si rompa. Detto questo, non è scritto da nessuna parte che 6,8 sia il peso giusto. Una bici può andare bene anche a 7-7,1 chili, ma trovi corridori e manager fissati che per prima cosa la sollevano. Preferirei atleti consapevoli dei vantaggi che una bici può dargli. Non è nemmeno bello avere la bici leggera e doverci mettere dentro i pesi. Di sicuro la bici di Pozzovivo non dovrebbe pesare come la bici di Ganna, giusto per fare due nomi a caso.
Quante bici date alla Cofidis?
Lo scorso anno 212. E se si pensa che i produttori di componenti faticano a consegnare e che le bici di scorta non le hanno mai toccate, per alcuni il 2021 comincerà con le bici intatte del 2020. Di fatto la prossima stagione durerà 15 mesi. Questi ultimi tre del 2020 e i 12 del 2021. Piuttosto, avete visto che bella annata è venuta fuori? Okay che il lockdown ha stravolto la preparazione degli atleti più esperti, ma Tour, Giro e Vuelta sono stati spettacolari come non succedeva da un po’. Belli tutti questi giovani. C’è chi dice che potrebbero durare di meno, ma è così importante che arrivino a 40 anni?
Si è anticipato un po’ tutto. Basta che non si scateni la caccia ai ragazzini, che per arrivare prima al top, magari smettono di studiare…
Sono d’accordo. Le squadre satelliti dei team WorldTour dovrebbero investire sulla formazione dei giovani. Perché se non studiano, non sono neanche in grado di svolgere la loro funzione di personaggi pubblici e testimonial. Lo fanno in altri sport, dovremmo farlo anche noi.
Avete vantaggi dalla presenza nel WorldTour?
Non esiste uno strumento che possa dirlo esattamente. Era stato fatto uno studio secondo cui soltanto due o tre squadre garantivano un ritorno. Noi siamo contenti di Cofidis e della collaborazione con un tecnico come Damiani. Abbiamo aumentato le vendite in Francia, ma anche in Indonesia. Questo per dire che in alcuni mercati il messaggio del professionismo non arriva e neppure serve. In Giappone, ad esempio, in cui vendiamo da 50 anni, conta il modo in cui ti sei comportato. Dovrebbe essere sempre così, in fondo…