EDITORIALE / Da Pantani a Colbrelli, le salite e le discese

03.10.2022
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All’imbrunire di sabato scorso, Vallo della Lucania, paesone di 9 mila anime nel cuore del Parco del Cilento, ha voluto ricordare la figura di Marco Pantani nel quadro della rassegna Volumi, Spazio ai libri. Una chiamata inattesa, soprattutto perché il libro in questione – Era mio figlio, firmato dal sottoscritto assieme a Tonina Pantani – ha già qualche anno sulle spalle.

Dopo aver scoperto che della zona cilentana ha remote origini anche Elisa Balsamo, fra gli aspetti più curiosi dell’incontro, durato circa un’ora, la presenza in prima fila di Ferdinando: un ragazzino di 11 anni che ha seguito tutta la rassegna, divorando libri e intervenendo a ogni presentazione.

La storia di Marco

Fra gli aspetti legati alla figura di Marco, quelli che più hanno interessato vertevano sul suo carattere, le origini della sua grinta, che cosa rappresentasse per lui la bicicletta, in che modo i tifosi gli siano restati accanto dopo Madonna di Campiglio, perché il sistema di politica e stampa l’abbia attaccato in modo così compatto e perché da un certo punto in poi si sia chiuso in se stesso.

E’ stato come ripercorrere 12 anni di storia, raccontando episodi e aneddoti che magari un tempo erano più vivi nella memoria. Mentre oggi, a 18 anni dalla sua morte, galleggiano in un passato di sentito dire e tinte sfocate. Il ragazzino in prima fila non ha perso una battuta, al pari di alcune donne colpite dal racconto e dall’emozione difficile da ricacciare giù, che in certi passaggi – oggi come allora – riaffiora al solo parlarne.

Le scazzottate nel giardino della scuola per difendere i più deboli. Quella volta che a 14 anni tornò tardi da un giro in bici, raccontando di essere arrivato in un punto lontanissimo. La bici come mezzo per emanciparsi. Quel fuoco dentro che appartiene solo ai più grandi. Gli striscioni del Giro che ancora oggi parlano per lui. E poi la violenza degli attacchi di stampa e le 8 procure alle calcagna. Un uomo da solo contro un sistema che aveva deciso di non perdonargli nulla. L’inchiesta sulla morte condotta con superficialità. Le battaglie di sua madre Tonina. In quei minuti è stato come se la ferita chiusa da anni avesse ripreso a sanguinare negli occhi lucidi di alcuni che annuivano e ricordavano. Mentre Ferdinando fissava e stava zitto. 

I tifosi non hanno mai rinnegato Pantani, per contro gli hater non sono mai mancati
I tifosi non hanno mai rinnegato Pantani, per contro gli hater non sono mai mancati

Pantani e i social

Poi a un certo punto la domanda di Antonio Pesca, organizzatore della rassegna e nella circostanza moderatore dell’incontro, ha fatto sorgere una riflessione. Ha chiesto qualcosa sulla differenza fra il Pantani esuberante sulla bici e l’uomo chiuso e poco comunicatore nella vita di tutti i giorni. E in quel momento abbiamo realizzato che Marco, le sue imprese e poi le sue disgrazie appartengono all’epoca prima dei social. Così mentre da un lato è stato immediato sottolineare che Pantani fosse in realtà un comunicatore efficace e per nulla banale, capace di dare il titolo ogni volta che esprimeva un concetto, dall’altra è venuto da farsi qualche domanda. Che cosa sarebbe successo se Madonna di Campiglio fosse avvenuta oggi? Marco avrebbe avuto chiaramente un mare di follower e questi come avrebbero reagito? E i detrattori, invece?

L’esempio di Colbrelli

Qualche giorno fa, abbiamo pubblicato un’intervista di Filippo Lorenzon a Sonny Colbrelli, per farci spiegare come si faccia a battere Evenepoel quando parte nelle sue fughe. Il pezzo era ben fatto e ha scatenato il dibattito sui social. Ma la cosa più sorprendente è stata che fra gli oltre 400 commenti su Facebook, se da una parte c’era chi riconosceva che l’unico modo per Sonny di battere Remco agli europei di Trento del 2021 fosse proprio stargli attaccato a ruota per poi batterlo in volata, dall’altra si sono levate bordate di insulti. Parole offensive, che hanno colpito Colbrelli per il suo modo di correre e hanno adombrato legami fra quella corsa e la sua attuale salute. Sonny ha letto. Un po’ ha commentato, poi ha smesso di farlo. Ragazzi, siete seri? 

L’accoglienza di Bruxelles per Evenepoel. Quando Pantani vinse il Tour, a Cesenatico c’era la stessa folla
L’accoglienza di Bruxelles per Evenepoel. Quando Pantani vinse il Tour, a Cesenatico c’era la stessa folla

Ferdinando, 11 anni

Alla fine del dibattito, coinvolto un po’ per scherzo e un po’ per metterlo alla prova, il piccolo Ferdinando ha preso il microfono e dopo una lunga pausa cercando le parole e intanto guardando la copertina che ritrae Marco a 14 anni, ha tirato fuori la morale suggerita dai suoi 11 anni.

«Non conoscevo questa storia – ha detto – e mi ha molto incuriosito. Leggerò questo libro. La morale che se ne può tirare fuori è doppia. La prima, visto quello che la bicicletta rappresentava per Pantani, è che volendo si può fare tutto. La seconda è che si può aver faticato tanto nella vita ed essere saliti molto in alto con il proprio lavoro, ma basta davvero poco per essere buttati giù».

La storia si ripete, basta guardare (in piccolo) il rumore attorno a Ganna dopo il mondiale andato storto, oppure quello che si diceva contro Evenepoel dopo le sconfitte dello scorso anno. La storia di Pantani è più attuale di quello che sembri. Parla di un uomo che ebbe l’ardire di opporsi al sistema dell’antidoping inteso come strumento di potere, all’arroganza di una Federazione che aveva venduto i suoi atleti in nome di altri interessi, al dominio dei grandi sponsor e degli squadroni. Lui l’ha pagata. Forse per questo oggi i corridori stanno nel loro mondo ed evitano di uscirne per sortite inopportune. L’esempio di chi s’è fatto male prima di loro basta e avanza.

Francia, l’autunno dei libri e la guerra dei chetoni

06.12.2021
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In Francia è l’autunno dei libri, per Demare e Alaphilippe. “Une annèe dans ma roue”, un anno alla mia ruota: è questo il titolo del libro scritto da Arnaud Demare con Mathieu Coureau, giornalista francese di Ouest-France. Una sorta di diario di bordo del velocista della Groupama-Fdj, per scoprire il dietro le quinte, le corse, gli obiettivi, la pressione, i pericoli, i momenti di gioia, i dubbi. E proprio i suoi dubbi hanno innescato qualche dibattito in Francia.

«Non tutti hanno le stesse restrizioni su alcuni prodotti come i chetoni – ha detto Demare, in apertura ai mondiali di Leuven vinti da Alaphilippe – faccio parte di una squadra che ha preso degli impegni, come altre. Ma il gruppo non è tutto come noi. Trovare qualcuno più forte fa parte del gioco. Ma in questa stagione, dalla Parigi–Nizza in poi, ho visto che stavamo correndo ad un ritmo davvero alto. In un solo anno le prestazioni hanno avuto una forte accelerata».

Mpcc e chetoni

Sembra di rileggere le dichiarazioni del suo team manager Marc Madiot negli anni in cui il ciclismo veniva scosso da problemi ben più gravi. Ma siccome è innegabile che da un paio d’anni a questa parte si vada davvero fortissimo e che i corridori abbiano dei regimi di allenamento e di vita atti a guadagnare ovunque si possa, il discorso merita di essere seguito. Soprattutto sul fronte dei chetoni, di cui abbiamo già scritto, l’Uci ha chiesto espressamente di non farne più uso.

Era stato proprio l’MPCC, il Movimento per il ciclismo credibile, a spingere per un pronunciamento. E alla fine, dopo aver aperto un’inchiesta, l’UCI ha spiegato che al momento non ci sono prove che i chetoni possano alterare le prestazioni, ma allo stesso tempo ha chiesto a scopo precauzionale ai corridori di non farne uso, almeno fino a quando le indagini non saranno concluse. Ciò che ha provocato l’indignazione del movimento francese è che alcune squadre, che in passato non hanno nascosto di servirsene, fra queste la Jumbo Visma, hanno annunciato che continueranno a farlo.

Dumoulin, qui durante il Tour de Dumoulin organizzato a ottobre, si è allontanato dall’Mpcc
Dumoulin, qui durante il Tour de Dumoulin organizzato a ottobre, si è allontanato dall’Mpcc

L’uscita di Dumoulin

Proprio la questione dei chetoni, ma anche lo svolgimento della Parigi-Nizza 2020 all’inizio della pandemia, aveva spinto Tom Dumoulin a lasciare il movimento in cui era entrato quando ancora correva con il Team Sunweb.

«Il dovere del movimento – aveva dichiarato all’olandese Wielerfits – è quello di proteggere la salute degli aderenti, ma la corsa si è comunque svolta durante la pandemia e questo non è stato un segno di coerenza con i principi stabiliti. Poi hanno inventato la storia secondo cui l’uso dei chetoni è molto pericoloso. Per cui, dato che il nostro team usa i chetoni, sarebbe ipocrita per me essere ancora un membro del MPCC. Queste due cose insieme mi hanno spinto a uscirne».

La risposta di Alaphilippe

Sul tema si è espresso anche Julian Alaphilippe, la cui Deceuninck-Quick Step non fa parte dell’MPCC al pari di altre 10 squadre WorldTour, e che ha a sua volta mandato nelle librerie un libro dal titolo “Julian Alaphilippe, il mio anno da campione del mondo” curato dal Jean Luc Gatellier, firma storica de L’Equipe .

«Ho visto che Arnaud ha pubblicato un libro – ha dichiarato – non l’ho letto, ma spero di farlo. I suoi dubbi? Certo, ci sono corridori nel gruppo che possono esprimerne, anche il pubblico in generale può averne. Ma finché sai cosa stai facendo, se sei tranquillo, problemi non ne hai. Io non ne ho. Anche se ci sono corridori più forti di me, che dominano, dal momento in cui inizi ad avere dubbi e pensi cose del genere, è inutile andare ad allenarsi…».

De Gendt, la vita è un colossale cubo di Rubik

05.11.2021
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Vincere una tappa con una fuga è un po’ come risolvere il cubo di Rubik: difficile, ogni tassello deve essere al suo posto, servono applicazione, scaltrezza, studio, capacità. Il perché di questo paragone ce lo suggerisce l’estro di Thomas De Gendt, belga (pardon, fiammingo) che domani compirà 34 anni. Corridore amatissimo dal pubblico proprio per la sua filosofia di corsa (attaccare, attaccare sempre, che poi si è scoperto essere una necessità quasi fisiologica), ha parlato della sua carriera al Bikefellas Cafè di Bergamo dove ha presentato la versione italiana del suo libro: “Solo” (AlVento edizioni, originale scritto da Jonas Heyerick).

Un titolo emblematico, scelto da una casa editrice che ha così inaugurato una collana di libri in cui celebrerà gli eroi non sempre vincenti al traguardo, ma primi nel cuore del pubblico, oltre che i campioni (prossima uscita: la bio di Julian Alaphilippe).

Il cubo di Rubik

Dunque, il cubo di Rubik come una fuga per la vittoria, due delle quattro passioni di Thomas che ama anche la birra e la PlayStation. Del suo feeling con le fughe, sapevamo, della sua abilità col cubo, meno, ma proprio al Bikefellas ne ha dato prova risolvendo l’enigma con una progressione delle sue: non si capiva cosa stesse facendo, ma all’improvviso, ecco la vittoria. «Il mio record è di 29 secondi – dice – ma su c’è gente che ce ne mette 3-4».

La presentazione del libro si è svolta ieri al Bikefellas Cafè di Bergamo
La presentazione del libro si è svolta ieri al Bikefellas Cafè di Bergamo

Pro’ a 18 anni

Il cubo però può avere più di quattro facce e diventare quasi irrisolvibile. Quasi irrisolvibile, come la lettura di questa sua annata, dove ha fatto registrare i migliori livelli nonostante l’età, eppure si staccava da 70 corridori.

«Il motivo? Ormai i giovani diventano professionisti a 18 anni – spiega – non più a 22-23. Vengono seguiti con app che controllano come e quando si allenano, i valori che esprimono, che gli dicono quando e cosa mangiare. Sono tenuti sotto pressione e questa richiesta assillante di prestazioni, insieme alla loro esuberanza, rende le corse durissime. Ecco perché ho deciso di evolvermi e dedicarmi a Caleb Ewan per fargli da gregario e non pensare più alle fughe».

Con Froome nelle retrovie all’ultimo Tour, facendo i conti con il nuovo che avanza
Con Froome nelle retrovie all’ultimo Tour, facendo i conti con il nuovo che avanza

Cacciatore di fughe

Il re delle fughe che le fughe dovrà riassorbirle, giunto al crepuscolo della sua carriera si rassegna al fatto che ad un certo punto fermarsi è questione di sopravvivenza. Lui, che uno stop mentale ha già dovuto affrontarlo vivendo un periodo di depressione, che è ripartito e ha vinto ancora: cosa che altri colleghi non sono riusciti a fare. Fanno riflettere le sue parole.

«E’ facile che la carriera dei corridori di oggi e di domani si accorci – ha detto – perché se iniziano con questo spirito, non possono reggere a lungo. Penso ad Aru, a Pinot, a Dumoulin, ognuno per un motivo proprio ha dovuto alzare bandiera bianca, ritirarsi o accettare di non poter più essere protagonista».

Da sinistra, l’interprete, l’editor del libro Filippo Cauz, De Gendt e a seguire l’editore Davide Marta
Da sinistra, l’editor del libro Filippo Cauz, De Gendt e a seguire l’editore Davide Marta

Piede a terra sul Koppenberg

I valori entusiasmanti di Pogacar, Roglic, Van der Poel, Van Aert impressionano tutti e danno vita ad un ciclismo esaltante, spettacolare, dove le fughe sono anche per vincere un Tour, non solo per far vedere lo sponsor in mondovisione. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere alto.

Dire che bisognerebbe darsi una calmata rischierebbe di essere il solito discorso nostalgico, ma il messaggio per direttori sportivi, team manager, sponsor, procuratori è forte e chiaro. E poi pensare che un corridore come De Gendt riesca ad ammettere che «la mia salita test è il Koppenberg, ma mi capita di dover mettere il piede a terra» non accende quella scintilla nel cuore degli appassionati di ciclismo, che vivono più di sofferenze e di sconfitte che di trionfi e palmarès?

Il saluto a Bergamo lo fa ricordando un compagno bergamasco alla Vacansoleil, Matteo Carrara, che al Giro del 2012 lo pilotò nell’ultimo tappone fino ai piedi dello Stelvio, sede d’arrivo dopo aver scalato l’inedito Mortirolo da Tovo di Sant’Agata. L’impresa riuscì a metà: De Gendt vinse la tappa, ma dovette accontentarsi del terzo posto finale, dietro a Hesjedal e Rodriguez.