Kjell Carsltrom, Israel Premier Tech, NSN Cycling Team

Carlstrom saluta Israel e riparte da NSN Cycling Team

21.11.2025
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«Siamo orgogliosi di dare il benvenuto a NSN e Stoneweg nel nostro team – ha dichiarato Kjell Carlstrom – e di annunciare il nostro nuovo nome e la nostra nuova identità».

Non è bastato per trattenere Premier Tech, ma la metamorfosi della Israel Cycling Academy è ora avvenuta davvero. L’obiettivo di distaccarsi dalla bandiera israeliana è stato raggiunto e il gruppo sportivo guidato da Kjell Carlstrom proseguirà l’attività con un altro nome e una nuova affiliazione. Dopo le manifestazioni della Vuelta nei giorni più atroci del massacro di Gaza e la rinuncia (non si sa quanto spontanea) alle corse italiane di inizio autunno, la squadra ha deciso di svoltare. 

«La società internazionale di sport e intrattenimento NSN (Never Say Never) e Stoneweg, una piattaforma di investimento globale con sede a Ginevra, in Svizzera – si legge nel comunicato – hanno stipulato una joint venture nel ciclismo professionistico su strada per rilevare la struttura dei team WorldTour e Development per la stagione 2026 (in realtà la Israel-Premier Tech era una professional, ndr). Di conseguenza, il nome della nuova squadra World Tour è NSN Cycling Team. Questo è un nuovo capitolo incredibilmente entusiasmante per il team e non vediamo l’ora di debuttare come NSN Cycling Team».

Fra Svizzera e Spagna

La nuova squadra sarà affiliata in Svizzera, al pari della Tudor Pro Cycling e del Team Pinarello-Q36.5. La struttura sarà invece spagnola, con sedi a Barcellona e a Girona, vero hub del professionismo internazionale. Il perché dell’anima catalana si spiega anche col fatto che tra i fondatori di NSN c’è Andres Iniesta, leggenda del Barcellona e della nazionale spagnola.

La presenza in gruppo del vecchio team, nata come veicolo di propaganda per Israele, ha causato diverse contestazioni, al punto che lo sponsor canadese Premier Tech ha annunciato l’immediato ritiro dalla squadra, ritenendo “insostenibile” continuare a sponsorizzarla. I canadesi si sono accontentati di diventare per i prossimi due anni il primo nome della continental francese St Michel-Preference Home-Auber93.

«Questa opportunità – ha spiegato Jean Bélanger, Presidente e CEO di Premier Tech – si sposa perfettamente con le ragioni per cui siamo impegnati nel ciclismo da oltre 30 anni. Costruire ponti a tutti i livelli dello sport e contribuire allo sviluppo dei ciclisti del Quebec e del Canada».

Durante la Vuelta le proteste contro la presenza del team israeliano hanno più volte fermato il gruppo (foto Marta Brea)
Durante la Vuelta le proteste contro la presenza del team israeliano hanno più volte fermato il gruppo (foto Marta Brea)

Il Tour de France sotto casa

La squadra ha cambiato nome, dalla prossima settimana dovrebbe essere in ritiro, mentre l’organico, i nuovi colori, i materiali (si parla di separazione da Factor Bikes con l’ingresso di Scott, rimasta fuori dalla Q36.5) e il programma delle gare saranno annunciati in seguito.

«E’ una sfida enorme per NSN immergersi nel mondo del ciclismo – ha detto Joel Borràs, Presidente e Fondatore di NSN – uno sport di portata così globale. E’ una fantastica opportunità per esplorare nuovi modi di comunicare e di entrare in contatto con uno sport in linea con i valori della nostra azienda».

«Il lancio del NSN Cycling Team – ha dichiarato invece Jaume Sabater, CEO di Stoneweg Group – è un momento di orgoglio per tutti noi e siamo incredibilmente entusiasti di lavorare con Kjell e l’intero team per garantire che possiamo raggiungere i massimi livelli nel ciclismo nei prossimi anni. Il ciclismo è uno sport che incarna valori in cui crediamo fermamente, dall’ambizione e dalla resilienza al lavoro di squadra e all’integrità. Il nostro nuovo team mira a incarnare questi principi e a ispirare la prossima generazione di ciclisti e tifosi».

Con il Tour de France 2026 che partirà da Barcellona, sede di NSN, è facile immaginare che per il nuovo gruppo si prospetta la ghiotta occasione di celebrare il fresco investimento.

Vuelta Espana 2025, ultima tappa MAdrid, protesta pro Palestina, disordini, tappa annullata

EDITORIALE / La Vuelta si ferma, il resto va avanti

15.09.2025
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Dopo due tappe rimodellate per la presenza dei manifestanti pro Palestina, ieri la Vuelta ha dovuto cancellare il finale di Madrid. Il corteo è diventato distruttivo. Le transenne sono state divelte. I palchi sono stati occupati. I corridori sono stati fermati. Si parlava da giorni dell’impossibilità che l’ultima tappa si svolgesse regolarmente, ugualmente però i velocisti hanno tenuto duro sulla Bola del Mundo e ogni altra salita, sperando di avere l’ultima chance che non c’è stata.

Di questo tema abbiamo già scritto in occasione della tappa di Bilbao, privata ugualmente del finale. Avevamo trovato fuori luogo l’osservazione di Vingegaard, dispiaciuto per non aver potuto vincere l’orsacchiotto per suo figlio che compiva un anno, percependo il gruppo della Vuelta come un’entità avulsa dal contesto sociale e politico in cui viviamo. Da allora, sia il danese ledaer della corsa sia altri rappresentanti del gruppo hanno trovato però il modo per rimarcare l’orrore di quanto sta accadendo a Gaza, riconoscendo le ragioni di chi protesta, ma stigmatizzando le azioni violente. Posizione anche questa ineccepibile.

Un podio posticcio a tarda sera: così Vingegaard riceve il trofeo della Vuelta, davanti ad Almeida e Pidcock (immagine @lavuelta)
Un podio posticcio a tarda sera: così Vingegaard riceve il trofeo della Vuelta, davanti ad Almeida e Pidcock (immagine @lavuelta)

Uno sport di strada

Il ciclismo sta in mezzo alla gente ed è impossibile chiuderne l’accesso. E’ il bello del nostro sport e insieme la sua condanna, quando certi limiti non sono soltanto dati dalle transenne, ma anche dalle varie volontà politiche.

Se una manifestazione decide di bloccare una corsa, non ci sono reparti di celerini che tengano. La corsa magari passa, ma in un contesto inaudito di violenza. Vale la pena caricare centinaia di manifestanti, se l’alternativa è fermare un evento sportivo WorldTour che vede al via alcuni tra i più forti professionisti al mondo? Certo che no, il ciclismo si farà da parte per quel senso di responsabilità che l’ha sempre accompagnato. Non ci sono biglietti da rimborsare e tutto sommato i corridori sono abituati a chinare il capo.

La Gran Via di Madrid è stata invasa dai manifestanti in un baleno: la Vuelta non poteva che essere fermata
La Gran Via di Madrid è stata invasa dai manifestanti in un baleno: la Vuelta non poteva che essere fermata

Il ciclismo che subisce

Come quando lo sport decise di dichiarare guerra al doping e si lanciò in campagne sul non rischiare la salute e altri slogan vanificati dall’esperienza. Aderì soltanto il ciclismo, nel nome dello stesso senso di responsabilità. Il ciclismo sapeva – dicono i ben informati – di avere situazioni da sanare. Lo sapevano anche gli altri – si potrebbe rispondere – ma ritennero che non fosse un problema. I calciatori beffeggiarono la necessità di sottoporsi ai controlli. Rino Gattuso, l’attuale cittì della nazionale di calcio, rifiutò di sottoporsi a un prelievo ematico: poté farlo perché per loro si trattava di controlli su base facoltativa, che per i ciclisti erano invece obbligatori.

Sull’altare di quella correttezza, pertanto, il ciclismo immolò alcuni dei suoi campioni più carismatici, il più delle volte senza un’evidenza sostenuta da prove. Per delle percentuali di ematocrito, poi ritenute inaffidabili. Oppure per cervellotici algoritmi australiani, poi cancellati. Per quantitativi infinitesimali di sostanze che più di recente sono state ritenute una colpa lieve e punite con tre mesi di squalifica. Non ci stancheremo mai di ripetere che per un caso identico a quello di Sinner, Stefano Agostini prese due anni di squalifica e smise di correre. E la normativa nel frattempo non è cambiata.

Il gruppo fermato all’ingresso nel cicrcuito di Madrid. Ivo Oliveira parla con un uomo della Guardia Civil
Il gruppo fermato all’ingresso nel cicrcuito di Madrid. Ivo Oliveira parla con un uomo della Guardia Civil

Il mondo non si schiera

La protesta della Vuelta era nata per fermare la Israel-Premier Tech, poi è degenerata. Si è fatto più volte il paragone con la russa Gazprom, fermata quando la Russia iniziò l’invasione dell’Ucraina: lo abbiamo fatto anche noi. Eppure ha detto bene il presidente dell’UCI Lappartient: la disposizione scattò quando, in seguito alle disposizioni politiche internazionali, il CIO decise di fermare lo sport russo. Contro Israele nessuno ha detto nulla. Da quelle parti hanno il diritto di bombardare, affamare e azzerare una popolazione, figurarsi se qualcuno troverà mai utile parlare del loro diritto allo sport.

Per questo, di fronte alla codardia o alla convenienza politica internazionale, i manifestanti hanno attaccato uno dei pochi sport che non si può difendere, che non divide diritti televisivi e non ha biglietti da rifondere. Sarebbe invero stupendo, per quanto utopistico, che lo sport si fermasse anche solo per un minuto per commemorare le vittime di quel conflitto disumano, senza bisogno di manifestanti. E’ inutile tuttavia aspettarsi che accada. Sarà curioso invece vedere cosa accadrà il 14 ottobre a Udine, quando l’Italia si giocherà contro Israele la qualificazione per i mondiali di calcio. Di certo uno stadio dotato di cancelli e barriere sarà un luogo più facile da difendere di un viale alberato delimitato da semplici transenne.

EDITORIALE / Il Papa, le voci di Gaza e il ciclismo che tace

04.08.2025
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Quando il pullman della Israel-Premier Tech entrava nel parcheggio al raduno di partenza del Tour, accanto gli camminavano diversi gendarmi ben armati. Assistevano alle operazioni di parcheggio e poi, anche se disinteressati alle cose del ciclismo, sostavano nei dintorni perché nulla turbasse i preparativi della squadra israeliana. Ugualmente dopo la tappa, così raccontano gli autisti degli altri mezzi, quello della Israel era l’unico bus a poter infrangere i limiti di velocità fino a raggiungere l’hotel assegnato. Già da un anno, dalle sue fiancate come da quelle di tutti gli altri mezzi del team, per motivi di sicurezza è stata cancellata la scritta Israel.

Quello che succede a Gaza è sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno nel mondo dello sport ha pensato di fermare la squadra israeliana, come venne fatto nel 2022 per la Gazprom al tempo dell’invasione russa dell’Ucraina. Perché?

La Israel Premier Tech appartiene Ron Baron e a Sylvan Adams, presidente del Congresso Ebraico Mondiale per la Regione di Israele
La Israel Premier Tech appartiene Ron Baron e a Sylvan Adams, presidente del Congresso Ebraico Mondiale per la Regione di Israele

Le parole di Sylvan Adams

Non si può chiedere al ciclismo e allo sport in genere di risolvere questioni politiche di immensa tragicità, ma neppure si può rimanere indifferenti quando si muove con diversi pesi e diverse misure e ci si comporta come se nulla fosse.

La Israel-Premier Tech appartiene a Ron Baron e Sylvan Adams, miliardario canadese-israeliano e presidente del Congresso Ebraico Mondiale per la Regione di Israele. Adams era presente all’insediamento di Donald Trump e in una lettera al neo rieletto presidente americano lo aveva invitato a schierarsi apertamente a favore dell’intervento contro il “flagello” iraniano.

A febbraio invece, recatosi in visita in un’area confinante con il territorio di Gaza, annunciò investimenti per costruire infrastrutture ciclabili e sportive nella regione devastata dal massacro di Hamas del 7 ottobre 2023.

«Questi mostri – dichiarò all’agenzia JNS, Jewish News Syndicate – sono venuti qui con l’intento malvagio e premeditato di torturare, stuprare, mutilare, profanare, prendere in ostaggio il nostro popolo e distruggere il più possibile. Ma hanno fatto male i calcoli: i terroristi sono riusciti a unirci, non solo in Israele, ma tutti gli ebrei ovunque. Manterremo i nostri valori ebraici e continueremo a essere una forza positiva nel mondo. Siamo resilienti, abbiamo attraversato terribili tragedie in passato, nel corso della nostra storia».

«Sono stati uccisi 18 mila bambini a Gaza – scrive Iacomini, portavoce Unicef – non è una questione di definizioni. Sono MORTI» (@unicef)
Hanno ucciso 18 mila bambini a Gaza – scrive il portavoce Unicef Andrea Iacomini – non è una questione di definizioni. Sono MORTI (@unicef)

Le parole di De Marchi

Ora che invece la tragedia sta dilaniando Gaza e nell’indifferenza sta portando alla morte per fame dei suoi abitanti, con un bilancio provvisorio di oltre 40.000 vittime (nell’attentato al rave del 7 ottobre ne furono uccisi 1.200 e 250 vennero rapiti dai terroristi di Hamas: una risposta era necessaria, ma si è decisamente passato il segno), il mondo del ciclismo tace e va avanti. E’ il periodo dei rinnovi dei contratti, il Tour è appena finito e si va verso Vuelta, mondiali ed europei. Alcuni tifosi lungo la strada hanno sventolato bandiere palestinesi, mentre al Tour nel giorno di Tolosa (foto di apertura) un ragazzo ha corso con una maglietta che inneggiava all’espulsione della squadra. Ma ovviamente nulla è accaduto a livello ufficiale.

«Farei molta fatica ora – ha dichiarato invece Alessandro De Marchi al britannico The Observer – a indossare quella maglia. Non voglio criticare nessuno perché ognuno è libero di decidere per chi correre, ma in questo momento non firmerei un contratto con la Israel. Non sarei in grado di gestire i sentimenti che provo. Nel 2021 mi diedero la possibilità di continuare a correre ai massimi livelli, mi diedero un buon contratto e un buono stipendio e io guardavo alla casa che dovevo costruire e alla mia famiglia. Anche per altri colleghi è lo stesso. Ora mi rendo conto che nella vita ci sono momenti in cui, anche se può essere difficile, è meglio seguire la propria morale. Adesso farei le cose in modo diverso. E forse come mondo del ciclismo dobbiamo dimostrare che ci preoccupiamo dei diritti umani e delle violazioni del diritto internazionale».

Alessandro De Marchi ha corso con la Israel-Premier Tech nel 2021 e 2022, indossando anche la maglia rosa
Alessandro De Marchi ha corso con la Israel-Premier Tech nel 2021 e 2022, indossando anche la maglia rosa

Le parole del Papa

Ieri a Roma più di un milione di ragazzi da tutto il mondo ha pregato per Gaza e per l’Ucraina con il nuovo Papa americano. Difficile immaginare che qualcosa cambierà. Difficile anche decidere di scrivere questo editoriale in un magazine che si occupa di ciclismo. Eppure qualcosa bisognava dire, un segnale è necessario. Gino Bartali, che salvò così tanti ebrei dalla deportazione, sarebbe rimasto in silenzio davanti a questo scempio delle vita umana?

«Noi siamo con i ragazzi di Gaza – ha detto il Papa al termine della messa – dell’Ucraina e di ogni terra insanguinata dalla guerra. Voi siete il segno che un altro mondo è possibile, un mondo di amicizia in cui i conflitti non vengono risolti con le armi ma con il dialogo».

Un mondo che esiste soltanto nei raduni religiosi? Alcuni dei politici che ieri ci hanno riempito di parole sulla grandiosità del raduno e la sua spiritualità sono gli stessi che assecondano le teorie di Trump, accolgono a braccia aperte Netanyahu e offrirebbero ristoro ai soldati israeliani stremati dalla guerra, mentre a Gaza si continua a morire per i cecchini, le bombe e la fame. Non è certo colpa dei corridori della Israel, come non era colpa di quelli della Gazprom. La colpa è come sempre del potere dei soldi. Di chi lo ha e di chi non ce l’ha: non è antisemitismo è pietà. E se è abbastanza evidente che il denaro basti spesso per comprare la felicità, di certo non è servito (finora) per comprare l’umanità. Fermare la Israel-Premier Tech sarebbe servito e probabilmente ancora servirebbe a far capire che noi non siamo d’accordo.