EDITORIALE / Perché uno vinca, serve un altro che perda

22.11.2021
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Guillaume Martin, corridore filosofo della Cofidis, ha scritto un altro libro. Il primo si intitolava “Socrate a velò”, cioè Socrate in bicicletta. L’altro, il secondo, l’ha chiamato “La Société du peloton”, vale a dire la società del gruppo. Gli spunti che offre sono molteplici, ma attraverso un paio di essi cerchiamo di leggere quanto accade nel ciclismo, lanciato verso il 2022 con l’affanno di riprendersi ciò che il Covid s’è portato via.

Martin è l’uomo di punta della Cofidis per la salita, ma è noto più che altro per i suoi studi di filosofia
Martin è l’uomo di punta della Cofidis per la salita

Il gruppo e il campione

Una volta un corridore scherzando sul suo piazzamento nelle retrovie, disse che per dare grandezza ai primi c’è bisogno anche dello scenario composto da quelli che vengono dopo.

«Non possiamo vivere senza gli altri – scrive Martin – biologicamente, sociologicamente o economicamente. Resta da vedere come collaborare con loro senza dimenticare se stessi, come uscire dal gioco senza danneggiare il gruppo senza il quale non esisteremmo. Il campione ha bisogno di un gruppo per affermare le sue ambizioni. Emana da esso e ne fa parte e tuttavia cerca di distinguersi da esso, di sfuggirgli».

Sembra invece che lo stesso affanno di cui si diceva in avvio si sia impadronito anche dei ragionamenti dei manager, che dovrebbero essere più lungimiranti. Nei giorni scorsi, Gasparotto ha esposto il problema con grande lucidità.

«Ai miei corridori ho da raccontare esperienze pratiche che a me sono costate – ha detto – io ho avuto tempo per rimediare, loro non ce l’hanno. Bisogna tirare fuori il meglio da tutte le situazioni, perché oggi il margine di errore è davvero ridotto».

Oggi si investe per cercare i primi, rovistando fra gli juniores, lasciando che gli altri smettano. Va bene che il professionismo è composto dall’elite del movimento mondiale, ma in nome di cosa chi ne faceva parte ieri, ne è fuori oggi? Non fuit in solo Roma peracta die: Roma non fu costruita in un solo giorno.

Al Tour del 2018, Dumoulin finì 2° dietro Thomas, Roglic fu 4°. Dopo il… buco del 2019, tutt’altro scenario
Al Tour del 2018, Dumoulin finì 2° dietro Thomas, Roglic fu 4°. Dopo il… buco del 2019, tutt’altro scenario

Dumoulin e Roglic

Il collegamento con il passaggio successivo del libro di Martin è a questo punto immediato. «Viviamo in un mondo che esaspera le piccole differenze – scrive il francese – che le amplia. Oggi sono diventato il leader di una squadra e come tale godo di uno status radicalmente diverso da quello di corridori che ho a malapena dominato nelle categorie amatoriali».

Vengono in mente Dumoulin e Roglic, due corridori che si sono spesso sfidati prima di diventare compagni di squadra. Fino alla caduta nel Giro del 2019, lo score era tutto dalla parte dell’olandese. Poi il blackout e lo sbocciare dell’altro. In un’intervista pubblicata su Cyclingnews, uno dei tecnici della Jumbo Visma dice che l’olandese è ancora un corridore da grandi Giri e come tale potrebbe tornare al Tour de France nel 2022.

Nessuno di quelli che conosce Dumoulin lo ha mai messo in dubbio. Fra i due la differenza l’ha fatta la testa. Eppure, nonostante sia tornato ai vertici con una medaglia olimpica nella crono, c’è stato bisogno dell’intervento del preparatore. Il ciclismo era già passato oltre.

Martin si stupisce dei continui paragoni del ciclismo di oggi con quello di un tempo
Martin si stupisce dei continui paragoni del ciclismo di oggi con quello di un tempo

Un’insolita bulimia

E alla fine è ancora il libro di Martin a fornire una lettura chiara di quello che vivono oggi i corridori. Si parte tuttavia dal presupposto che ciascuno ha la percezione dell’epoca in cui si muove e che il peso della storia sia un carico difficile da sostenere. E’ così in ogni ambito: dalla durezza della scuola rinfacciata ai figli, a quella del lavoro.

«Sono stupito – scrive Martin – dei profili Twitter che esaltano il ciclismo di una volta. E’ facile suggerire che noi ciclisti contemporanei siamo pigri rispetto ai nostri gloriosi predecessori. Nel percorso del prossimo Giro appena svelato, nessuna tappa supera i 200 chilometri. Non credo però che siamo meno coraggiosi dei ragazzi che ne facevano 400. Da un lato, tutto dipende dall’intensità. Dall’altro, la nostra vita è un impegno costante e alla sopportazione chilometrica si somma ogni dettaglio della quotidianità. Non scaliamo l’Alpe d’Huez a tutta, come non facciamo 400 chilometri. Quando arriviamo ai piedi di una salita, il nostro cuore è già a 180 battiti e sappiamo che passeremo mezz’ora ad un’intensità che Henri Cornet o Maurice Garin non hanno sperimentato. Non possiamo proiettarci nei corpi di un’altra epoca».

Questo ciclismo così veloce li divora, ne rende alcuni indubbiamente ricchi e altri li abbandona. Accettarlo senza mettersi di traverso è il modo migliore perché la velocità aumenti. Martin in apparenza non si chiede chi abbia convenienza da tutto questo: forse sarebbe utile chiederselo e trovare una risposta.

La quotidianità non ammette grossi recuperi e tolta la settimana di vacanza, non c’è spazio per altro. A volte si parla di carriere più corte a causa dell’impegno precoce. Quella di Dumoulin ha rischiato di finire anche per quest’ansia di riempire, sfruttare, produrre e ripagare gli investimenti che a tratti assume i contorni di un’insolita bulimia. Dopo qualche mese di stacco, il suo talento è tornato a brillare.