Prendetelo, se siete capaci. Li ha fatti fuori a suon di scatti e adesso Ciccone scava il solco alle spalle. A volte allarga un po’ il ginocchio sinistro e guarda in basso, come se la sua bici avesse qualche problema. Ma le ruote continuano a girare e le gambe a spingere. Il traguardo si avvicina.
Cogne è là davanti, da qualche parte in mezzo ai boschi. La strada dell’ultima salita ha tratti in discesa che fanno rifiatare, ma dopo le prime due scalate e soprattutto la tappa di Torino nelle gambe, nessuno ha la potenza per riprenderlo. Così “Cicco” va e chissà se in testa prende a calci la crisi del Blockhaus. Strana coincidenza, a pensarci. I due bocciati di lusso dalla salita abruzzese si sono rifatti nel weekend successivo. Ieri Yates, oggi Giulio.
Eredità immotivata
I giudizi sono stati spesso ingenerosi, un po’ come quando si decise di accostare Cunego a Pantani e ogni passaggio a vuoto del veronese gli veniva sbattuto in faccia quasi con disprezzo. Non si sa perché qualcuno a un certo punto ha deciso che Ciccone dovesse essere l’erede di Nibali ed è stato come toccare un altro mostro sacro: perché? E allo stesso modo in cui non fu Cunego a chiedere l’investitura, ancora oggi si continuano a chiedere certe cose a Giulio.
Quando ce lo troviamo davanti, le ombre si sono diradate e con la sua faccia da monello, Ciccone ha solo voglia di far festa. Sulla stessa salita nel lontano 1998, un altro corridore delle sue parti – Ruggero Marzoli da Pescara – vinse una tappa del Giro delle Regioni. Entrambi cresciuti alla Colpack, entrambi con lo sguardo da matto.
Possiamo dire che era ora?
Più che altro possiamo dire che ci voleva. E’ stata bella sofferta e arriva dopo un lungo periodo difficile, in cui sono stato tanto sfortunato. Non è stato facile, però è arrivata.
Ieri Yates ci ha raccontato come si è ripreso dalla mazzata del Blockhaus, qual è stato il tuo percorso?
Sicuramente per me è stata una bella mazzata. Sapevo che poteva succedere, perché prima del Giro sono stato male. L’avevamo anche messo in conto con la squadra, in assoluto non è stata una sorpresa. Ma certo non potevo pensare che succedesse così, a casa mia, sul Blockhaus. Poi il giorno dopo c’è stato il riposo, quindi ero proprio dentro casa. Con la mia gente. Il feeling è stato ancora più brutto.
Come ne sei uscito?
Ho cercato di aggrapparmi alle cose giuste, alle mie capacità, al fatto di restare concentrato. Sapevo che comunque ero un po’ limitato dai problemi che ho avuto prima del Giro. Però sapevo anche che prima o poi doveva arrivare. Se avessi continuato a correre bene e a gestirmi, l’occasione doveva arrivare. E oggi è arrivata al momento giusto, con le gambe giuste.
A quali cose giuste ti sei aggrappato?
Ho pensato ai fatti dell’ultimo anno e degli ultimi giorni. In tante occasioni sono stato motivo di critica. E’ assolutamente normale, lo accetto. Siamo degli sportivi e la critica va accettata. Un po’ come nel calcio, quando si tifano squadre diverse e si smontano le altre. La critica è anche costruttiva, ma ultimamente era diventata esagerata, perché si gonfiavano sempre le aspettative, anche se io resto sempre a basso profilo. Non mi piace espormi molto, perché è nel mio carattere, non perché voglio tirarmi indietro. Mi sono attaccato semplicemente alle cose fondamentali.
Quali?
Come dicevo, alle mie caratteristiche. Al lavoro che ho sempre fatto sul serio, anche se alcuni ne hanno dubitato. Alle persone che hanno creduto in me. Alla mia famiglia. Alle persone che tutti i giorni mi hanno sempre ripetuto: «Cicco, sei sempre tu. Stai tranquillo e vedrai che arriva!». A differenza di quelli che dicevano: «Cicco è finito. Cicco è un fuoco di paglia. Cicco qua e Cicco là». Mi sono aggrappato a quelli che hanno creduto a me fino a ieri, nonostante abbiamo preso ancora legnate.
Fare classifica in un Giro è ormai un’utopia?
L’anno scorso la sfortuna ha deciso di condizionarmi. Al Giro secondo me avevo una condizione ottimale, ero sempre lì in tutte le tappe a combattere con gli uomini di classifica. E alla 16ª tappa ero sesto, dopo aver combattuto per quasi tre settimane. Per me era la prima classifica. Ero partito con Vincenzo come leader, era arrivato tutto a sorpresa. Ma ero lì e invece mi hanno coinvolto in una caduta e mi sono ritirato. Poi la Vuelta…
Come è andata?
Alla Vuelta volevamo fare classifica, ma nella stessa tappa sono andato a casa per una caduta. Anche lì ero in crescita e stavo rientrando nei primi dieci, con un livello altissimo. Ripeto: io so che stiamo vivendo un ciclismo in cui campioni come Pogacar e Roglic sono di un’altra categoria. Va accettato che sono più forti, però ho sempre detto che per me fare una buona classifica significava avvicinarmi ai primi cinque, iniziare a fare esperienza e vedere come reagiva il mio fisico nelle tre settimane.
Dovevi farlo quest’anno…
Era il programma, ma dalla Tirreno in poi è andato tutto storto. Con il covid e la bronchite. Un mese prima del Giro ho fatto due settimane di antibiotici. Ho rinunciato alla Freccia e alla Liegi e tutte le gare di avvicinamento. Sono arrivato al Giro a fari completamente spenti e il risultato è stato che la classifica non era possibile.
Questo paragone con Nibali?
E’ un paragone forte, perché siamo due corridori completamente diversi, di caratteristiche e mentalità. E’ una responsabilità grande, perché lui ha vinto tutto quello che poteva e se vieni paragonato a un campione è sempre una responsabilità grande. Da parte mia, potenzialmente ero e sono convinto tutt’ora che non mi manca niente per fare una buona classifica ed essere competitivo. Però ci sono dei fattori che non puoi controllare, come è successo a me dal 2019. Ci sono stati tanti bastoni fra le ruote che hanno portato a questa situazione.
Cosa hai provato vedendo Lopez in maglia rosa?
“Juanpe” è più di un compagno per me. Ho passato un mese in altura con lui e, ridendo e scherzando, gli ho detto più di una volta che sarebbe andato molto forte al Giro d’Italia. Quindi per me non è stata una sorpresa. Certo, vederlo in maglia rosa specialmente il primo giorno mi ha fatto un effetto strano. La maglia rosa è una cosa importante e in lui e nella sua spensieratezza ho rivisto un po’ il Giulio Ciccone del 2019, quando facevo così, un po’ spensierato e un po’ leggerino.
Come sono stati quegli ultimi chilometri?
Dall’ammiraglia mi tenevano aggiornato sul vantaggio. Mi dicevano di gestirmi e di non saltare per aria e che comunque sarei arrivato, perché dietro erano staccati di un bel po’. Mi sono goduto la gente e ho riassaporato la sensazione bella che si vive quando stai per vincere.
Ti sei divertito ad attaccare a quel modo?
Sono stato Giulio Ciccone, che quando si sente bene fa sempre così, come è sempre successo. Quando sto bene e la gamba mi dice di andare, io provo ad attaccare: che sia in salita o in discesa. Non sono attacchi della disperazione, ma per far male e infatti hanno fatto male. Perché alla fine siamo rimasti in tre, poi in due, poi sono rimasto da solo. Quando sto bene, io sono così.