Sangue, soldi e sesso. In mancanza di vittorie, se si realizza una di queste condizioni, anche il ciclismo ha diritto al suo grande spazio. La caduta dei campioni al Giro dei Paesi Baschi ha conquistato le prime pagine e le successive, come pure lo spazio in alcuni telegiornali, con conduttrici e conduttori in evidente imbarazzo nel pronunciare nomi per loro totalmente sconosciuti. Abbiamo poco da lagnarci, basterebbe chiedere agli appassionati di tennis per quanti anni siano rimasti in sala d’attesa, accontentandosi della storia d’amore fra il giocatore e la velina e tornando finalmente a respirare grazie a Sinner.
Una vetrina in subaffitto
In Italia lo sport è un mondo strano. Il calcio si mangia tutto e chi è chiamato a dirigere i grandi media ha chiaro di non dover lasciare spazio ad altro. Difficile dire se vengano scelti per questa loro idea o se gli venga chiesto di farla propria. Il resto, in ogni caso, ha a disposizione una piccola vetrina in subaffitto. Quando ci si lamenta per la mancanza di una squadra WorldTour in Italia, si agitano spesso fantasmi del passato, ma ci siamo chiesti quale potrebbe essere da noi il ritorno di immagine per un simile investimento?
Non esiste lo sport come valore oggettivo, mentre esiste l’oggettività di un certo tipo di cultura. La grande prestazione in teoria dovrebbe trascendere i confini nazionali e gli interessi di parte. E se ieri il Van der Poel della Roubaix è olandese e non italiano e se anche il primo dei nostri (Andrea Pasqualon) arriva al traguardo in cinquantesima posizione, la grandezza dello spettacolo dovrebbe svegliare la voglia di raccontare. C’erano tre milioni di persone lungo le strade. C’era il campione del mondo in fuga come un’aquila. C’erano la resa eroica di Pedersen e il cinismo spietato di Philipsen. Ci sono state le cadute di Viviani, Milan e Bettiol: i primi due attesi alle Olimpiadi su pista. C’era il mondo. Quel che mancavano erano i giornalisti dall’Italia, perché tranne pochi specializzati, gli altri hanno dovuto raccontarla da casa.
Van der Poel non è neppure francese, lo era suo nonno Raymond Poulidor. Eppure L’Equipe di oggi in edicola ha riservato alla Roubaix dieci pagine, oltre alla prima con l’iridato da testa a piedi (immagine di apertura. Il titolo recita: Sua Altezza del pavé). Il calcio l’hanno messo dopo, perché è giusto che una qualsiasi giornata di campionato venga dopo una prova Monumento. La Sanremo è un Monumento: siamo certi che il resto dello sport si sia fermato per ammirarla?
La missione del giornalista
I lettori vanno educati, un po’ come i figli e gli studenti. Se a un figlio proponi sempre la stessa vita, crescerà con orizzonti limitati e non potrà sviluppare le sue potenzialità. Se l’insegnante non è capace di spiazzare gli studenti diversificando il modo di raccontare la cultura, avrà fallito la sua missione. Anche i contadini sanno che a un certo punto la rotazione delle colture è il solo modo perché il campo continui a rendere.
Se un organo di informazione, qualunque sia la sua forma, continua a proporre sempre gli stessi argomenti, quale tipo di cultura sportiva potrà sperare di generare nei suoi lettori? Va bene, qualche direttore che si sentisse chiamato in causa potrebbe rispondere che non gliene importa nulla e che non è questa la sua missione, ma di questo potremmo discutere a lungo.
Se quello che facciamo è spolpare sempre lo stesso osso e rinunciamo a trasmettere dei valori, come possiamo pretendere che domani la gente avrà voglia di leggere altro? Qual è il ruolo del giornalista nel formare nuovi cittadini? E se domani, tornando allo sport, Van der Poel sarà italiano, siamo certi che le pagine a lui dedicate non verranno vissute come spazio sottratto alla routine e agli interessi del calcio?
Lo spirito olimpico
Ad agosto Parigi chiamerà a raccolta l’elite dello sport mondiale e, come ogni quattro anni, ci ritroveremo a tifare davanti a discipline di cui non sappiamo nulla. Ogni sportivo ha la sua storia, ogni grande impresa ti scuote dentro se chi la racconta suona i tasti giusti. Ma la sensazione è che nel Paese più bello del mondo con la corsa più dura del mondo, tutto questo venga visto come noia e semmai occasione per spremere limone e sponsor, in attesa che ricominci il campionato e si possa finalmente rimestare nel paradiso del calcio.
Non può essere il ciclismo a cambiare la storia, ma i valori dello sport potrebbero essere tanto potenti da scardinare pregiudizi e cattivi costumi. Si è scelto tuttavia di appiattirsi su un mondo che non riesce a sganciarsi dalla dittatura dei milioni e si fa andare bene il razzismo e l’omofobia. Allora forse, nel chiudere questo amaro editoriale, la sensazione che ci assale è che rientri tutto nello stesso disegno. Va bene che il pubblico venga assecondato e beva quello che gli viene versato, senza che debba chiedere altro. Casomai gli venisse poi la voglia di pretendere qualcosa di diverso da chi, qualunque sia la sua bandiera, invece dello sport, è chiamato a fornirgli leggi, democrazia e lavoro.
Si capisce bene che Pantani a un certo punto sia diventato scomodo. Come lo inquadri uno che offusca il calcio, i suoi sponsor e i limitati orizzonti e accende le luci sul ciclismo, sponsorizzato per giunta non da una multinazionale, ma da una piccola catena di supermercati? Magari una spintarella perché se ne parli un po’ meno o in modo diverso, avrà pensato probabilmente qualcuno, gli si potrebbe anche dare, no?