Se Pierpaolo Addesi sta a Daniele Bennati, nel ciclismo paralimpico il ruolo di Villa appartiene a Silvano Perusini, che lo scorso anno ebbe l’incarico di costruire dal nulla il settore della pista. Nell’Italia delle tantissime medaglie su strada, infatti, la pista inspiegabilmente mancava. Il friulano, che per mestiere lavora in un centro di riabilitazione per tetra e paraplegici in cui gestisce tutta la parte di scienze motorie, ha preso l’incarico con serietà ed entusiasmo. Il frutto del suo lavoro e quello degli atleti sono state le prime medaglie ai mondiali – da Glasgow a Rio – e la qualificazione olimpica. Da domani la sua nazionale sarà in ritiro a Montichiari.
«Non me l’aspettavo – dice – sinceramente, non me l’aspettavo. Cordiano stesso (il presidente federale Dagnoni, ndr) mi aveva indicato come obiettivo massimo le Olimpiadi di Los Angeles del 2028, perché anche lui capiva che era tutto da costruire. Quando sono arrivato, non avevo neanche un’officina, non avevo un box, non avevo una bicicletta, una ruota, né dati sugli atleti. Quando entravo in pista con quei 4-5 ragazzi che avevo convocato, c’era una disorganizzazione incredibile. Loro non sapevano come riscaldarsi, non sapevano dove mettersi. Ne avevo uno in curva, uno nel rettilineo delle partenze, l’altro nel rettilineo opposto. Adesso invece si fissa un orario. Si dice che alle 9,30 si sale in pista e li vedi puntuali, che fanno doppia fila, organizzati con il rapporto giusto, con la pressione giusta delle gomme. Ormai abbiamo raggiunto un livello di organizzazione molto elevato. Quindi non guardo solo il risultato, ma anche il lavoro fatto. Adesso hanno delle competenze tecniche e tattiche, sanno gestire le varie tipologie di allenamento. In questi due anni, abbiamo fatto veramente un bel lavoro».
Si può dire che il primo scatto nella consapevolezza sia stato il mondiale di Glasgow?
Sono stati i mondiali in cui sono scattati il senso di appartenenza alla squadra e l’orgoglio per le medaglie raggiunte. E chi non ha portato medaglie comunque ha ottenuto dei quarti posti. Ci siamo resi conto delle nostre capacità, delle nostre potenzialità e dei margini di miglioramento. Glasgow ci ha dato visibilità a livello nazionale, grazie alla presenza dei giornalisti. Eravamo equiparati alla nazionale di Villa, siamo usciti dall’ambiente ciclistico paralimpico e siamo entrati in quello del ciclismo. C’erano le dirette, immagini che giravano in televisione e sui siti. A Glasgow c’è stata una grossa gratificazione anche dal punto di vista mediatico che, assieme ai risultati ha fatto crescere il gruppo. E tutto questo ci ha dato una grande spinta verso i mondiali di Rio.
Cosa è successo a Rio?
Abbiamo avuto una bella crescita che ci ha permesso di conquistare delle medaglie e di vincere il titolo mondiale a squadre (foto di apertura, ndr), che secondo me è il più gratificante. Fra tutte le specialità, è la più difficile da costruire dal punto di vista tecnico. Hai bisogno di lavorare su quattro atleti (Chiara Colombo-Elena Bissolati, Federico Meroni-Francesco Ceci, ndr), sulla tecnica, sulla tattica. Ci sono meccanismi da curare, devi raggiungere veramente la perfezione per fare un risultato del genere. Probabilmente nell’ambito del mondiale è stata la medaglia più bella.
Hai avuto difficoltà a fare le scelte per Parigi?
Ho avuto difficoltà perché nell’attimo in cui raggiungi una certa posizione nel ranking, l’UCI ti dice che hai dei posti limitati e quindi ti devi confrontare anche con la strada. Il gruppo guidato da Pierpaolo Addesi ha una tradizione e una storia molto più lunga di quella su pista. Ha dei campioni affermati che calcano da sempre il palcoscenico dei mondiali e delle Olimpiadi e questo ti porta a delle scelte obbligate. Quindi per il rispetto verso gli atleti della strada, che sono veramente di altissimo valore, abbiamo scelto di portare in pista chi ai mondiali aveva fatto podio nelle specialità olimpiche. Per cui i nomi erano quelli di Claudia Cretti e il tandem di Plebani-Bernard. In più ci siamo giocati la slot con Andrea Tarlao, anche se ai mondiali non aveva preso una medaglia nelle discipline olimpiche.
Le discipline olimpiche sono il chilometro e l’inseguimento, giusto?
Esatto. E sono soddisfatto di partecipare con tre ragazzi – due del tandem e la Claudia – perché mai ci saremmo sognati di poter già accedere alle Paralimpiadi. Penso sia una bella gratificazione per tutto il gruppo della nazionale su pista e soprattutto per questi ragazzi che hanno lottato tanto. Mi dispiace per il tandem di Ceci e Meroni, perché a Rio hanno fatto un grandissimo mondiale. Hanno vinto la specialità a squadre, il tandem sprint a squadre, ma non hanno preso la medaglia in una specialità olimpica. Sono arrivati quinti nel chilometro, a pochissimo dal podio, ma non è bastato.
Quanto è stato difficile, visto il gruppo che si è creato, comunicare l’esclusione agli atleti rimasti fuori?
E’ una cosa tragica. Durante i ritiri nasce una grande complicità tra atleta e tecnico nel rispetto dei propri ruoli. Mi rendo conto che l’atleta patisca una scelta del genere, però è tanto pesante anche trasmetterlo, proprio per il rapporto che si crea. Non è stato semplice, però poi fai una valutazione prettamente tecnica e quindi i ragazzi devono recepirla, capirla e accettarla.
Quanto siete cresciuti sotto l’aspetto tecnico rispetto al non avere nemmeno un’officina?
Molto. Per quanto riguarda il tandem, abbiamo la collaborazione con Bonetti. Per le ruote, viviamo abbastanza alla luce della nazionale maggiore. Infine, per tutto quello che è la valutazione funzionale, ci basiamo sulla collaborazione col Team Performance della Federazione. Quindi abbiamo dei dati molto specifici sulle qualità e le capacità dei ragazzi e questo è veramente una cosa molto importante. In più utilizziamo i biomeccanici della Federazione e anche in questo riusciamo a curare il materiale e il posizionamento in modo molto preciso. Se penso a quello che eravamo, abbiamo raggiunto veramente un livello importante.
Secondo te quale potrebbe essere il nostro livello a Parigi?
Facciamo subito un’analisi per atleta. Claudia Cretti ha delle possibilità di medaglia per quanto riguarda l’inseguimento individuale. Stiamo lavorando tecnicamente in modo particolare sulla difficoltà nel raggiungere la velocità di crociera. La stiamo in parte risolvendo, quindi secondo me riusciremo a fare veramente una prestazione importante e mirare a una medaglia. Nei 500 metri ancora no, perché è ancora più importante lo stacco dal blocco in partenza. Quindi secondo me arriveremo fra i primi, ma non siamo da podio. Per quanto riguarda il tandem di Plebani e Bernard, che tra l’altro hanno fatto un ottimo risultato a Rio (terzi con 4’08”), anche lì abbiamo possibilità di medaglia. Rispetto a Rio siamo con tutti in condizione leggermente migliore. Abbiamo lavorato di più per quanto riguarda gli aspetti tecnici e gli aspetti metabolici specifici delle discipline paralimpiche. Sicuramente il tempo potrà essere abbassato, bisognerà vedere cosa faranno le altre nazioni. Io però sono abbastanza ottimista di poter migliorare intanto la prestazione di Rio.
Cosa farete di qui a Parigi?
Da questa settimana, da domani fino al 20, siamo in ritiro in pista. Il 20 abbiamo una gara paralimpica a Pordenone e ci teniamo anche a fare bene. Gli organizzatori sono stati gentilissimi e in Italia sono anni che non si fanno competizioni paralimpiche su pista al di fuori dei campionati italiani. La gara è la preparazione che ti dà qualcosa in più per fare bene nelle competizioni internazionali. Sono proprio contento di partecipare a questo evento, all’interno della Tre Sere di Pordenone, come nazionale. C’è un discreto pubblico, avremo visibilità e poi nella prima metà di agosto faremo altura a Campo Felice assieme al gruppo strada. Dal 20 al 25 torneremo in pista a Montichiari e il 25 si parte per Parigi. Andiamo alle Paralimpiadi, lo trovo meraviglioso.