La scorsa settimana è stato presentato il Giro della Valle d’Aosta (16-20 luglio), giunto alla sua 61ª edizione. Un grande evento nel capoluogo della Regione al quale ha presenziato anche Wladimir Belli, oggi commentatore tecnico per Eurosport e in passato corridore capace di salire sul podio del Giro della Valle in due occasioni, terzo nel 1990 e primo nel 1991 (in apertura foto Giro VdA).
Quello che ci è parso di notare è che si tratti di un’edizione meno dura rispetto agli ultimi anni. C’è una tappa veloce in avvio, una cronoscalata che è certamente impegnativa ma nel complesso riduce il dislivello. E soprattutto ci sono tre arrivi pedalabili, l’ultimo dei quali, quello di Cervinia, non è preceduto, come sempre accedeva in questi ultimi anni, dal Saint Pantaleon.
Attenzione, non vogliamo criticare: è semplicemente un’analisi. Magari potrebbe anche essere una scelta giusta ai fini dello spettacolo e del ventaglio di atleti per cui la corsa resta aperta. E con Wladimir Belli analizziamo proprio questi aspetti.


Wladimir, dunque, che Giro della Valle d’Aosta ti sembra?
Prima di tutto fatemi ringraziare patron Riccardo Moret, che mi ha invitato alla presentazione della gara. Sicuramente è un Giro della Valle diverso e un po’ meno duro. Non è impossibile rispetto ad altri anni, ma nel complesso le salite ci sono: 498 chilometri e oltre 11.000 metri di dislivello. Poi, per motivi legati anche alle località ospitanti, non si ha sempre carta bianca sulla scelta delle strade: bisogna fare di necessità virtù.
Chiaro…
La prima tappa è corta e per mezzi velocisti, la seconda è una cronoscalata la cui pendenza media è circa del 6 per cento: oggi con queste pendenze si parla di velocità prossime ai 30 all’ora. Per cui, sicuramente, chi va forte in salita emerge, ma uno che non perde troppo su una salita così pedalabile resta in lizza. Un discorso simile potrebbe valere anche per il Gran San Bernardo, che è una salita veloce, però lì le cose cambiano.
Perché?
Perché si va in quota. Vado a memoria, ma credo che sia, tra tutte le gare, anche quelle dei pro’, il secondo o terzo arrivo più elevato dell’anno (Qinghai Lake escluso, ndr). Al Giro d’Italia la Cima Coppi è stata ai 2.100 metri del Colle delle Finestre… E a quelle altitudini non per tutti è la stessa cosa. Non è facile. Alla fine, in tre giorni fanno lo stesso dislivello che c’era al Giro Next Gen.










Poi c’è Valsavarenche: il vero tappone. Ma ancora una volta la salita finale è lunga e veloce. Questo potrebbe inibire certi attacchi da parte degli scalatori puri?
Questo potrebbe essere vero, però prima ci sono altre salite per poter rendere la corsa dura anche su una salita non impossibile. E’ un giro sicuramente un po’ più aperto, e uno che pesa 68-70 chili è meno penalizzato. E poi, rispetto ai miei tempi, quando c’era la tappa finale facile, qui si finisce in quota. La fatica che si accumula può essere un altro elemento per fare la differenza. Sono ragazzi giovani e il recupero non è uguale per tutti, perché non tutti sono abituati a certe corse a tappe.
Anche i chilometri contano oppure ormai con alimentazione e preparazione è una cosa che incide poco?
Vi faccio un esempio sempre in termini di recupero. Tappone dell’Aprica del 1994, quello in cui Pantani diventò il Pirata. Tante salite in successione, 218 chilometri, restammo in bici per quasi 7 ore. Il giorno dopo altro tappone. I chilometri incidono, anche quelli dei giorni precedenti e anche se sono in pianura incidono. Perché se devi fare per tre giorni di seguito tanti chilometri significa che arrivi tardi in hotel e la mattina dopo parti presto: ti devi svegliare prima e questo alla lunga presenta il conto eccome.
C’è proprio meno tempo fisico per riposare, per scaricare la stanchezza e lo stress che contestualmente si accumula. E’ questo il senso?
Esatto, Nibali era un grande anche perché appena finita la tappa o le premiazioni, saliva sul bus e immediatamente dormiva. Altri invece erano lì che si logoravano già pensando al giorno dopo o facendo altro. Nel ciclismo ci sono moltissime variabili.


Per tre giorni si va oltre (o si sfiorano a Valsavaranche) i 2.000 metri: può essere una variabile che incide sul recupero?
No, mi spiego. Oggi i corridori giovani passano e sono subito performanti, perché hanno a disposizione internet e da qui una valanga di informazioni. Imparano prima e sono pronti su tutto. Poi magari da parte dei sudamericani c’è sicuramente una predisposizione, perché sono abituati, ma ai fini del recupero non credo possa incidere.
Rispetto ai tuoi tempi sono diversi i percorsi del Giro della Valle d’Aosta?
No, la Valle d’Aosta è quella. Grande fondovalle e poi, che tu giri a sinistra o che tu giri a destra, salite ce ne sono quante ne vuoi. Un aspetto che invece viene poco considerato è il vento. Nei fondovalle c’è sempre. All’epoca io telefonavo a qualcuno del posto che conoscevo per sapere come girava. Adesso lo sanno tutti: i direttori sportivi comunicano ogni dettaglio e questo incide sul modo di correre.
Ecco, questo era diverso?
Magari uno attaccava su una salita, prendeva due minuti e poi nel fondovalle restava lì. Adesso queste cose sono gestite diversamente. Prima serviva molto di più l’esperienza, anche intesa come conoscenza delle strade, perché le avevi già fatte. Sapevi che, se dovevi girare a destra, poi la strada si stringeva: quindi ti portavi avanti prima.