Al Giro della Lunigiana del 2021 in cui Lenny Martinez trascinò i francesi alla conquista dell’Italia, Gianluca Geremia guidava la rappresentativa del Veneto, con corridori come Bruttomesso, Pinarello e Scalco. Quel primo Lunigiana dopo il Covid segnò di fatto l’accelerazione fra gli juniores che oggi è sotto gli occhi di tutti. Martinez trascorse una stagione nella continental della Groupama-FDJ e poi salì nel WorldTour. Pinarello passò direttamente professionista nella Bardiani. Si era messo in moto il meccanismo che ha portato allo svuotamento della categoria under 23 per ragioni tecniche e per altre convenienze di cui fanno le spese i ragazzi meno pronti al salto di categoria.
Il tecnico ex corridore
Geremia lavora nel commerciale di Morfeo Gadget, che realizza trofei stampati in 3D, e per il resto continua a seguire le squadre della sua regione e ne manda avanti una a sua volta. Da dilettante ha vinto 11 corse, è stato per tre anni alla Zalf Fior, prima di passare professionista. Tornare a quel Lunigiana è il pretesto per rileggere anche l’Editoriale di ieri e capire che molto probabilmente il discorso ha colto nel segno (in apertura la squadra del Veneto al Lunigiana 2024, immagine Facebook).
«Nel 2021 eravamo nel pieno di un momento – dice Geremia – in cui la Francia iniziava a raccogliere il frutto di un percorso intrapreso anni prima. Già da tempo correvano diversamente, facevano più gare a tappe e meno gare di un giorno. Quindi il loro calendario era già più internazionale, il colpo di pedale era differente e avevano già eliminato la limitazione dei rapporti. Però anche i nostri si difendevano. Bruttomesso ha fatto la sua trafila, è stato under 23, poi è diventato professionista. Quest’anno ha fatto i primi risultati e come lui Crescioli, che in quel Lunigiana arrivò secondo e quest’anno ha vinto una tappa del Tour de l’Avenir. Si vide però un diverso modo di lavorare. Anche noi avremmo potuto togliere la limitazione del 52×14, ma se in corsa non faccio il ritmo gara dei francesi, si creano danni e basta. E’ servito il tempo per adattarsi».
Diverso colpo di pedale significa anche altre velocità?
Io seguo la categoria juniores e posso dire che le medie si sono alzate drasticamente. Ormai la gara vale quanto una nei dilettanti di dieci fa. Non ancora con gli stessi picchi, però ci stiamo avvicinando. I ragazzi sono molto più maturi fisicamente e se vengono seguiti bene, tirano fuori delle super prestazioni. Con l’avvento di Salvoldi in nazionale, abbiamo visto che allenati nel modo giusto e con le giuste intensità e frequenze di pedalata fra pista e strada, ottengono grandi risultati e non sono secondi a nessuno. Dopo la svolta del 2021, adesso bisogna stare attenti. Da quell’anno il ciclismo juniores è diventato ancora più esigente e ho visto che molti atleti forti al primo anno, non si sono confermati al secondo e questa cosa un po’ mi fa pensare.
Perché?
Normalmente si andava bene il primo anno e più forte al secondo, ora invece c’è una flessione. Abbiamo fatto un passo in avanti, ma ora dobbiamo avvicinare l’altro piede, perché a livello mentale non sono preparati per queste pressioni. Hanno tutti il procuratore, ma molte volte non ricevono alcuna indicazione oppure non sono pronti per ascoltare quello che gli viene detto. Poi ci sono le pressioni dei team, per cui si stanno creando un po’ di confusione e anche attriti fra il team, la nazionale e le squadre in cui andranno. La società juniores vuole far correre il ragazzo perché ha investito soldi e tempo per avere dei risultati. La nazionale ha le sue esigenze e l’ottimo lavoro di Edoardo (Salvoldi, ndr) è il fatto di mediare fra le parti. Però dall’altra parte c’è la pressione che arriva da questi procuratori che porteranno i ragazzi nei vari team satellite. Questo crea il rischio di collisione, è tutto il sistema che rischia di andare in crisi.
Perché tutto questo?
Perché c’è stato un giro di chiave e stiamo rincorrendo un sistema non nostro. Secondo me, dobbiamo trovare il nostro metodo di lavoro, perché qui i ragazzi non sono trattati come all’estero, dove hanno le scuole che permettono di fare attività sportive. Dove ci sono le vere scuole sportive e dei team satellite con budget che gli permettono di fare un’attività tanto superiore. Questo sistema, che per noi italiani è ancora lontano, ci sta precludendo la possibilità di trovare il vero campioncino, perché magari si è spinti a chiedere il risultato a un allievo che non è ancora maturo.
Ci sono degli esempi?
L’esempio lampante è Francesco Busatto (Geremia non ha dubbi, ndr). Per molti era uno dei tanti e aveva l’80 per cento di possibilità di smettere e il 20 di entrare nei dilettanti. Poi per fortuna, abbiamo visto chi è. Io credo che spesso non si faccia una selezione attenta, perché effettivamente il procuratore guarda i numeri. Vede quello che vince, l’altro che ha un ottimo test, però abbiamo visto tanti ragazzi andare forte nei test eppure non diventare mai dei corridori. Quella roba lì non te la vendono al supermercato. Prendiamo il caso di Finn…
Cosa vogliamo dire?
Sin dalla prima volta che lo vidi al Lunigiana, si capiva che fosse un ragazzo genuino e brillante mentalmente. Uno che dichiarava che avrebbe attaccato e che avrebbe cercato di fare il forcing e poi l’ha fatto davvero. Quando poi vai all’arrivo e vedi questo ragazzino magro, ancora tutto da formare, lo capisci subito che questo qua è il nostro pacchetto regalo per il futuro, l’investimento, il nostro fondo. E come lui secondo me ce ne sono anche altri. Come appunto Busatto, un altro che fisicamente sembrava quasi un esordiente messo là con gli juniores. Magari non brillante come Finn, però vedevi che c’era del margine di lavoro. Sapete cosa manca secondo me veramente in Italia?
Un vero osservatore disinteressato o comunque obiettivo?
Esatto, il talent scout, che non è il procuratore, ma uno che guarda le corse indipendentemente dal colore della maglia. Che va a parlare direttamente con i direttori sportivi, che magari regione per regione riesce veramente a seguire l’allenamento, parlare con gli atleti e con i loro tecnici. Secondo me dobbiamo trovare una formula di questo tipo, perché oltre ai numeri, per fare i corridori servono altre peculiarità e una di queste è la famiglia alle spalle. Chi sei, come ragioni, cosa pensi, cosa vuoi. Lì dobbiamo trovare, perché è il mix di tanti elementi a far sì che il ragazzo diventi corridore. Se ci soffermiamo solo sul fatto che vince 100 corse e ha ottimi test, secondo me non stiamo portando avanti la persona giusta. Ecco, io la vedo così perché provengo da un ciclismo dove ci scornavamo tutte le domeniche al circuito di San Michele, la corsa del campanile, ma da lì è uscito Ballan, è uscito Cunego.
Il mondo però nel frattempo è cambiato…
Vero, stiamo parlando di un altro ciclismo e dobbiamo adeguarci, ma io sono convinto che dobbiamo essere bravi tutti a trovare il nostro metodo e dare al ciclismo dei corridori che non siano degli juniores con la barba o allievi con le gambe straformate, che fanno tot chilometri all’anno e vincono 200 corse. Quelli sicuramente hanno buone capacità fisiche e voglia di fare sacrifici, ma evidentemente è un tipo di gestione non lungimirante.
Torna al tuo ciclismo: Geremia sarebbe stato pronto a passare professionista a 19 anni?
Pronto non lo ero sicuramente, perché da junior dovevo ancora cominciare a ad allenarmi. L’entusiasmo ci sarebbe stato tutto. Un’altra pecca di questo ciclismo è che nei dilettanti non ci sono più gli elite e quindi si vive su questa categoria under 21 che si tentò di inserire nel lontano 2000. E’ come una continuazione degli juniores, invece di essere due anni è come se fossero tre perché i più forti vanno a fare un altro tipo di calendario e approdano ai devo team. I medio-buoni rimangano lì, vincono sempre gli stessi con la crescita di qualcuno, però la scelta si riduce. E noi intanto portiamo avanti quello che pensiamo sarà il corridore professionista, ma non è così.
Ci fai un esempio?
Quando c’erano gli elite, quando io stesso ero un primo anno elite, in gruppo c’erano Nibali e Visconti. E quando vedevi questi ragazzini del primo anno che vincevano e bacchettavano i più grandi, era il segno che erano corridori veri. E se c’era qualcuno che faceva il furbo, in quegli anni andavano a beccarlo subito. Battere un elite preparato ad esempio per la Coppa Colli Briantei piuttosto che il Giro di Toscana, era l’indicazione di uno che andava forte, che era un corridore vero. Con questa formula abbiamo sempre trovato corridori che ci hanno fatto fare bella figura nel mondo professionistico. Non solo Nibali e Visconti, pensiamo anche a Pozzovivo. Quindi la categoria dilettanti italiana andava benissimo perché il livello delle gare era alto e potevi davvero dare una misura ai giovani che arrivavano.
Quindi Reverberi che propone la cancellazione degli U23 ha ragione solo perché la categoria è stata svuotata?
Esatto. Le gare sono diventate di 150 chilometri, non ha proprio senso chiamarli dilettanti, chiamiamoli juniores del terzo o quarto anno. Inventiamoci un’altra categoria, perché ha ragione Reverberi. Purtroppo in questo ciclismo qualcuno ha deciso che gli under 23 non servono e noi dobbiamo adeguarci a questa a questa legge di mercato, io la chiamo così. Se però facciamo un discorso razionale e ci diciamo che dobbiamo tirare su atleti imposti da una legge di mercato come questa, perché adesso va quasi una moda fare così, sono del parere che resteremo perdenti. Stiamo inseguendo gli altri e quindi siamo già fuori tempo, il ciclismo mi ha insegnato questo. Se c’è fuori la fuga e il gruppo la annulla tutti insieme, inseguire ha un senso. Ma se tu dovevi essere in quella fuga perché ci sono dentro quelli che vincono, puoi inseguirla, ma sei fuori tempo. Quando rientri, gli altri ripartono e tu hai chiuso.
Quindi cosa si dovrebbe fare?
Fare squadra, inseguire con il gruppo per raggiungerli. Così quando arriviamo a prenderli, abbiamo energie per stare ancora con loro o per rintuzzare i nuovi attacchi. Ma finché rincorriamo così, per tentativi e da isolati, diventa tutto più difficile. Ci potrebbe essere sotto un discorso politico, ma non sta a me farlo, perché sono lontano dalla politica. Oggi stiamo parlando di cose tecniche, però a mio modo di vedere gli elite non hanno mai fatto male a nessuno e mi dispiace vederli maltrattati. Li chiamiamo vecchi, ma hanno 24-25 anni e nonostante quello che dice il ciclismo moderno, hanno tanto da dare.