Vi è mai capitato di pensare o sentir dire che gli incroci impazziscono quando a gestirli arrivano i vigili? Difficile dire se sia un fenomeno italiano, ma indubbiamente in alcune situazioni si potrebbe pensare che sia vero. Chi vive quotidianamente le dinamiche di certi snodi, ha trovato col tempo il modo per abbreviare i tempi di attesa e integrarsi con gli altri, creando meccanismi non sempre ortodossi, ma indubbiamente efficaci. Quando arriva chi è preposto ad applicare le norme, il meccanismo va in tilt. Il problema sono davvero i vigili oppure il traffico ha sposato l’anarchia e non riesce a stare nelle regole? Anche nel ciclismo italiano a volte si ha questa sensazione e se prima non si fa un’analisi un po’ più onesta, viene da pensare che puntare il dito contro la Federazione (e i vigili) serva a poco.
Alla base infatti c’è un movimento che rifiuta di prendere coscienza di se stesso e vive aspettandosi che tutto continui al solito modo: semmai spetta ad altri aggiustare le anomalie. Così non si va lontano. Ci si indigna quando i ragazzini fanno valigia e vanno all’estero. Proviamo a guardarla dal loro punto di vista: di cosa hanno bisogno e perché qui non lo trovano?
Troppe 13 continental
Cercano prospettive, professionalità, attività di alto livello, sbocchi professionali. Potrebbero trovarli anche qua, a patto che le squadre di casa nostra fossero in grado di garantire standard competitivi. Il 2023 ha visto in Italia 13 continental, ma quante hanno effettivamente proposto attività qualificata (dentro e soprattutto fuori dai confini nazionali), mettendo a disposizione dei loro atleti staff davvero preparati? Forse due, non più di tre.
Quando la FCI spinse per la nascita di queste squadre (conseguenza del dominio straniero al Giro d’Italia U23), probabilmente non si aspettava un’adesione così massiccia. Pensavamo tutti che nel panorama italiano sarebbero salite di livello soltanto le squadre con i mezzi finanziari per affrontare un’attività superiore. Si è capito invece che così non sarebbe stato, quando le stesse continental insorsero davanti all’impossibilità di partecipare alle gare regionali. Avevano pensato e forse ancora pensano che il cambiamento fosse solo di facciata. La colpa di questo non è della Federazione, ma di chi pensa che le norme servano per riempire pagine inutili. Davanti a questa mentalità, i ragazzi partono.
Il bullismo delle grandi
E intanto però si è innescato un corto circuito. Se 13 continental vanno a fare la voce grossa nelle gare del calendario nazionale, alle squadre più piccole non resta nulla. Un po’ come quando alla Settimana Coppi e Bartali partono 8 WorldTour e alle professional non rimane che la vittoria di una semitappa in volata.
Si corre per fare esperienza e magari anche per vincere. Obiettivo delle squadre più piccole è lavorare per innalzare il livello dei propri atleti affinché vengano notati da qualche… inquilino dei piani alti. Certamente avere avversari troppo grandi fra i piedi fa sì che venga meno la possibilità di fare esperienze costruttive.
Secondo chi scrive, quindi per opinione puramente personale, alle continental andrebbero riservate le gare del calendario internazionale U23 e quelle professionistiche, in Italia e all’estero, cui si ha la possibilità di partecipare. Allo stesso modo andrebbe ridotta significativamente la quota di WorldTour nelle corse di “classe 1” che dovrebbero essere terreno per professional e continental. Ci dicono che in tal caso parecchi organizzatori valuterebbero di cessare l’attività: in questo la Federazione (nazionale e internazionale) dovrebbe avere un ruolo di tessitura, per rendere omogenei i calendari.
Il giorno dello Stelvio
Fa riflettere sulla fragilità di certi organici il fatto che al Giro di Sicilia (in cui le WorldTour erano 5), a fronte di 59 corridori di continental italiane, 25 si siano ritirati. Qualche anno fa ci colpì la scelta della Mastromarco di non andare al Giro della Valle d’Aosta, avendo solo corridori molto giovani che da quella sfida non avrebbero tratto insegnamento. Questo è il giusto modo di pensare: un atteggiamento costruttivo e responsabile.
Si può dire lo stesso davanti ai 31 corridori squalificati nel giorno dello Stelvio? Un paio di squadre sparite dalla corsa in un solo giorno: 11 corridori di squadre italiane U23, 11 di continental. Il resto, erano stranieri. Sciocchi loro, i corridori, convinti di essere furbi. Ancora peggio però ne sono usciti i loro tecnici, con tutte le distinzioni fra i casi. Non si va al Giro d’Italia solo per mostrare la maglia. Quanto accadde quel giorno ha portato soltanto a multe, sospensioni e punizioni, oppure ha aperto la porta a una riflessione più seria? La Federazione potrebbe forse cavalcarla e approfittarne per ristrutturare il sistema, ma non ne ha colpa. Davanti a quella mentalità e alla superficialità di certe gestioni, i ragazzi partono.
La corsa all’oro
Su tutto ciò si allunga come un’ombra il lavoro degli agenti dei corridori che hanno vita facile a proporre contratti all’estero. Ciò che dispiace è che la loro opera si sia abbassata nel frattempo anche alla categoria allievi, dove le decisioni andrebbero prese da parte dei genitori e non dei ragazzi, facili da convincere con promesse da Paese dei Balocchi. Parecchi torneranno indietro: non tutti trovano l’oro.
Il partire indiscriminato non è colpa della Federazione, ma delle promesse e dell’inadeguatezza di alcuni team. Sarebbe bello che uno junior scegliesse di correre in una piccola squadra italiana perché capace di offrirgli le basi del mestiere da cui spiccare il volo e non perché costretto a ripiegarvi da un precedente fallimento.