Uno sguardo al ciclismo femminile con Maria Canins, due Tour vinti (foto di apertura), un Giro e un mondiale cronosquadre. E per farlo partiamo proprio da una frase che la campionessa ci disse qualche tempo fa. In un’intervista alla vigilia delle Olimpiadi, Gabriele Gentili le chiese se seguisse ancora il ciclismo femminile.
La Canins rispose così: «Un po’ sì… Forse andrò contro corrente, ma ho sempre pensato che il grande errore del ciclismo femminile sia stato quello di andare troppo dietro a quanto fanno i pro’, quando invece bisognerebbe scegliere una propria via, più semplice, più divertente. Il paragone con l’altro sesso sarà sempre perdente, è come paragonare la gara dei 100 metri maschile in atletica a quella femminile, sarà sempre la prima ad attira.
«Non capisco come facciano a correre con quegli auricolari sempre nelle orecchie, io non li avrei sopportati. A me piaceva correre e inventare, un giorno andava bene e l’altro magari no, ma così era più divertente».
Sei sempre del parere che cercare di paragonare il ciclismo femminile a quello maschile sia sbagliato dopo un anno così intenso per il ciclismo in rosa?
Per me ve bene tutto, il paragone ci sta, ma non deve essere troppo. Va a finire che con troppe gare ci si stanchi e si stanchino le atlete, perché rispetto agli uomini hanno lo stesso calendario, ma sono di meno. Quella a cui abbiamo assistito è stata una stagione davvero ricca di gare.
Troppe gare finiscono per annoiare dunque?
Se non ti fermi mai, arriva il momento in cui poi ti stanchi, che smetti di divertirti, perché almeno per me parte tutto da lì: dal divertimento. E magari va a finire che molli. Devi avere il tempo per te stessa. Ricordiamoci che parliamo di ragazze giovani.
Con la Vuelta che aumenterà man mano le sue tappe, presto avremmo tre grandi Giri anche tra le donne. Hai seguito la presentazione del prossimo Tour Femmes?
Non troppo, ma so che non c’è tanta salita. Almeno così mi hanno detto. Che c’è solo una tappa di montagna.
Che ci sia un solo tappone è vero, tra l’altro si scalano Aspin e Tourmalet, ma per noi è un tracciato molto duro. La salita non manca e si fa fatica a trovare una frazione per velociste pure…
In effetti in Francia di piatto piatto c’è ben poco. La pianura francese è sempre un po’ vallonata. Però mi fa piacere che ci siano queste tappe di alta montagna così prestigiose. In generale mi piace questo ciclismo moderno, è tornato più d’attacco come in passato
Però rispetto al passato è stato fatto un bel balzo in avanti…
Sicuro, in confronto a noi non c’è paragone. La Cappellotto mi tiene informata e mi dice che da qualche anno girano anche bei “soldini” per le ragazze, è tutto un altro mondo. Noi eravamo le appassionate che correvano. Oggi oltre a buoni stipendi vedo i bus, i massaggiatori, staff importanti… Bello.
E a Maria Canins sarebbe piaciuto correre in questo ciclismo?
No – risponde secca l’altoatesina – e il primo motivo per cui dico no è che non sarei stata in grado di accettare chi mi guidava dalla macchina: «Vai, aspetta, attacca». Per me il ciclismo era come giocare a carte. E ne ho perse di corse… A volte sbagliavo, ma seguivo le mie gambe. Anche io avevo il mio direttore sportivo che mi diceva di aspettare, e io magari non lo ascoltavo, ma non c’erano gli stessi vincoli di oggi. E poi non mi piacciono le radioline.
Concetto che avevi espresso anche la volta scorsa…
Avete visto che bello il mondiale? Con la Van Vleuten che, mezza morta, è riuscita a restare attaccata alle altre e rientrando da dietro le ha passate tutte senza che queste potessero più fare niente. Secondo voi sarebbe successo se avessero avuto le radioline e avessero detto a quelle davanti dei distacchi o ciò che succedeva dietro? O l’austriaca che ha vinto le Olimpiadi. Oggi le atlete senza radioline sono come api che vagabondano in cerca del fiore giusto.
Pensiero chiaro, ci sembra di aver capito: un ciclismo professionistico e d’avanguardia, ma senza radio?
Via le cuffie dalle orecchie e sarebbe un ciclismo di nuovo più semplice, altrimenti diventa un po’ come fare sport ai videogiochi. Se tu vuoi vincere invece devi stare attenta, devi osare. Io per esempio correvo davanti per due motivi: uno, perché in gruppo ero imbranata. E due, perché stando lì controllavo sempre chi scattava, chi c’era, chi non c’era, chi stava bene.
Massaggiatori, preparatori, diesse… ti sarebbe piaciuto avere queste figure professionali al tuo fianco?
Io venivo dallo sci di fondo e lì i massaggi a quell’epoca non si sapeva neanche cosa fossero. Quando arrivai nel ciclismo mi chiesero: «Maria vuoi un massaggio?». E io risposi: «Un massaggio? E perché?». Ricordo che ad un Giro del Veneto vedevo che li faceva una ragazzina di 19 anni e io a 30 anni non li avevo mai fatti. E idem con i nutrizionisti. A me è sempre piaciuto mangiare di tutto, ma con moderazione… Come faccio ancora oggi del resto.
E sul fronte della preparazione?
Facevo da sola. Io venivo da altri sport, come detto. Prima ancora del fondo c’era la corsa. La corsa è la base. Sostanzialmente ripresi le teorie della corsa e le applicai al ciclismo: allunghi, ripetute, distanze… Facevo da me. Ricordo che per le pulsazioni si appoggiavano le dita all’altezza della gola. Poi venne il cardiofrequenzimetro e fu un bel passo in avanti.
Quindi hai usato certi strumentazioni?
Sì, sì. Attenzione, io non sono contro l’evoluzione. Anzi, specie quella tecnica, mi piace. Se le ragazze per andare forte sentono di aver bisogno del preparatore, del nutrizionista o altro è giusto che vi ricorrano.
Evoluzione tecnica…
Mi è sempre piaciuta e mi affascina ancora. Sono per le innovazioni. Sono stata la prima ad usare i pedali a sgancio rapido e ad avere il computerino sul manubrio. In questo modo potevo regolarmi su quanto mancasse al traguardo volante, all’arrivo… La stessa cosa per l’abbigliamento. Oggi i capi sono super tecnici. Ed è giusto che non vadano in giro ancora con il pulmino e i completini aperti ad asciugare sui sedili per il giorno dopo. No, no… mi piace questa evoluzione e questa organizzazione.