Tredici anni sono passati, ma sembra ieri. Frank Vandenbroucke se ne andò il 12 ottobre 2009, in un albergo in Senegal, solo, all’ultimo passo di una discesa dolorosa. C’è chi dice che quell’epilogo così triste abbia dato un sapore di leggenda a tutta la sua storia, parallela ad altre di quei tempi, da Pantani a Jimenez, tutte con un finale tragico, epiche pagine strappate alla letteratura greca fatta di dei in terra.
I belgi ancora oggi amano follemente l’immagine di Frank. Il ragazzo che sembrava prestato al ciclismo da Hollywood e quella fama di “bello e dannato” lo aveva accompagnato da sempre, sin dai suoi esordi. Una vita che era legata intimamente al ciclismo, intanto per via delle origini, con il padre meccanico e lo zio Jean Luc ottimo protagonista dell’epoca di Merckx e Gimondi. Poi per quel ginocchio ballerino che lo tormentava da quando aveva 4 anni: girava con la sua piccola bici, quando un’auto lo prese in pieno. Tre mesi di ospedale, quattro operazioni: la leggenda narra che quel bambino non versò neanche una lacrima per il dolore, ma aveva pianto tutte le lacrime che aveva in corpo quando gli avevano dovuto tagliare il pantaloncino da ciclista…
Frank e Remco, simili e tanto diversi
Vandenbroucke come Evenepoel, accomunati da un passaggio repentino dall’epoca dei giochi, delle vittorie da junior subito a quella degli adulti, delle cose serie saltando a pie’ pari un’intera categoria. Oggi si discute ancora se quella scelta fatta dalla Quick Step sia stata giusta, anche per le conseguenze che ha creato in tutto il sistema. Allora sembrò quasi naturale: troppo forte Frank. Un talento simile andava subito messo alla prova sui grandi teatri, non su quelli di provincia…
Vinse subito, Frank e ad ogni vittoria faceva impazzire le ragazze, con quei suoi capelli biondo tinto, quel suo fare da attore consumato. Vinceva gare importanti, in linea e a tappe e ogni vittoria non era mai comune come non lo erano le sconfitte come quella al Fiandre nel testa a testa con Museeuw, il ciclista canonico, campione sui pedali, ma che non regalava quei guizzi di fantasia né dava spunti al gossip. La sua più bella vittoria? Lui disse la Liegi della fuga sulla Redoute, a 30 chilometri dal traguardo spingendo sul 39×17, vanificando gli sforzi di Bartoli che puntava al poker, ma che, come gli altri, si era accorto che quel giorno il belga volava.
In un giorno, il paradiso e l’inferno
Una favola, che stava però per tramutarsi in un dramma ed è curioso come le due facce della medaglia coincidano in uno stesso periodo, in uno stesso evento: la Vuelta del 1999. Gli dei sanno essere ironici e regalare quanto c’è di più bello e di più brutto pressoché nello stesso momento…
Frank ha già vinto una tappa, a lui non si chiede altro, ma quel mattino, arrivato di buon’ora per le operazioni di partenza, si accorge che al mezzo promozionale della Saeco c’è una ragazza talmente bella che tutta la fila è per farsi dare il caffè da lei e avere insieme un sorriso. Frank resta qualche lungo secondo attonito, poi chiama a sé Massimiliano Lelli, suo compagno alla Cofidis: «Dai, dimmi che la conosci, dimmi che me la presenti». Il toscano di buon grado lo accontenta e Frank diventa un cliente abituale, fa la fila anche più volte, s’imbottisce di caffè quel giorno e quello dopo e quello dopo ancora.
Una super vittoria in montagna
Tappa di montagna. Frank è esaltato da quegli occhi e si spinge: «Oggi vincerò per te e ti porterò il mazzo di fiori dato in premio». Sarah, questo il nome della ragazza, lo prende in parola e promette che sarà lì al traguardo ad aspettarlo. Vandenbroucke mette la squadra alla frusta: si arriva ad Avila, traguardo proibitivo per uno come lui, ma quel giorno il belga ha forze da Ercole. Anticipa tutti, se ne va a 70 chilometri dal traguardo, non lo vedono più e coloro che lottano per la maglia amarillo si accontentano di darsi battaglia quando Frank è già arrivato. Prende il mazzo e glielo porta: «Sei un uomo di parola» gli dice Sarah con un bacio sulla guancia. E’ quella la vittoria più bella, ma dai risvolti amari…
Alla sera la sua eccitazione non ha limiti. Non riesce a dormire. Il compagno di stanza gli suggerisce una soluzione: «Prendi dal frigobar una bottiglietta di alcol e manda giù un sonnifero». In quel momento non sa di vestire la figura del diavolo tentatore. Frank, ignaro, ci casca e scivola in un gorgo, quello della dipendenza.
Il delirio e la maglia iridata
Scivola sempre più giù, schiavo delle sostanze. Sono quelli gli anni del doping, certo, ma la sua storia con quella piaga c’entra fino a un certo punto, va ben oltre perché è lui che va oltre, arrivando alla cocaina, all’amfetamina. Il dio del pedale diventa sempre più anonimo, ai margini. Le squadre non ci credono più perché quello non è il Frank Vandenbroucke che avevano imparato a conoscere.
Una sera Vandenbroucke diventa preda del suo delirio. Si mette la maglia di campione del mondo, quella che non aveva mai vinto e aveva dovuto acquistare. Manda giù una bottiglia di vino, la più costosa e insieme s’imbottisce di cocaina. Lo salva la madre, trovandolo riverso nella sua stanza. La corsa in ospedale, il salvataggio in extremis. Ma sono solo i prodromi della sua fine che come spesso accade a chi ha conosciuto la massima popolarità avviene nella solitudine di una stanza d’albergo, il 12 ottobre 2009. A quasi 35 anni. Un talento sbocciato troppo presto, senza la forza mentale per gestirlo.