Questa foto, già usata un’altra volta in queste pagine, continua a girarci per la testa da due giorni, da quando abbiamo saputo che “Kresh” non c’è più. Crescenzo D’Amore era sopravvissuto al linfoma di Hodgkin, invece è morto sabato notte nella sua auto a 45 anni. Se un destino esiste, il suo era stato già scritto, ma lui da gran velocista almeno per una volta era stato in grado di schivarlo.
Il 10 ottobre 1997 era di venerdì e andando alla partenza del mondiale juniores di San Sebastian, il cittì Balboni sbagliò strada. Quando l’ammiraglia degli azzurri raggiunse la transenna, i poliziotti si rifiutarono di farli passare, finché il tecnico gli tirò contro la sua patente e quelli, intuita la necessità, aprirono la transenna. Il mondiale rischiava di cominciare nel modo sbagliato, anche se D’Amore sorrideva sornione. La tensione dei giorni precedenti si era sciolta dopo un dialogo illuminante con lo psicologo Rota e il napoletano era certo di poter fare la sua corsa. Il percorso non sembrava tagliato per un velocista e quando Balboni lo aveva inserito, persino Alfredo Martini era parso perplesso. Contro ragazzini di futuro talento come Alejandro Valverde e Bradley Wiggins, oltre a D’Amore l’Italia schierava Galli, Brugaletta, Claudio Bartoli e Michele Scarponi, che però bucò nel primo giro e il suo mondiale si chiuse lì.
La barca non deve affondare
Davide Balboni ricorda, con la voce comprensibilmente alterata. C’è voglia di tornare a quei giorni lontani per sentirsi ancora una volta giovani e spensierati, con il cappello girato sulla testa e la sensazione di potersi prendere il mondo che di colpo era tornata possibile.
«San Sebastian – dice – è l’esempio che dopo quel giorno ho sempre portato a tutti per far capire la forza del pensiero rispetto a quella fisica. A tre giorni dal mondiale, Crescenzo non muoveva la bicicletta. Poi dopo una chiacchierata fatta con il dottor Rota, lo psicologo della nazionale, venne fuori che il problema ero io, perché lui temeva di deludermi e di compromettere la mia carriera da tecnico appena iniziata. Allora gli dissi che era lì perché meritava di esserci e di non pensare ad altre cose. Bastò una chiacchierata per ribaltare tutto in tre giorni. Si staccava di ruota sui cavalcavia, invece vinse il mondiale. Gli dissi: “Ricordati che siamo sulla stessa barca e io, Davide, quella barca non la faccio affondare”. In quella foto che fu scattata da Pietro Cabras lui sta piangendo e mi sta dicendo: “A ogni giro pensavo a quella barca che non doveva affondare. Ogni santo giro…”. E io lo porto sempre ad esempio, perché lui fu proprio l’emblema di cosa significa la testa nel mondo dello sport, ma anche nella vita normale».
Non era un percorso per velocisti…
Crescenzo veniva dalla medaglia d’argento dell’anno precedente nel chilometro da fermo, quindi era comunque un corridore di alto livello, anche se tutti avevano bocciato le sue possibilità su strada. Invece in una prima chiacchierata mi aveva confidato che la pista gli era stretta e su strada in realtà voleva provarci, segno di una grande determinazione. Ricordo che andammo a vedere il percorso di San Sebastian con Alfredo Martini e Antonio Fusi, nel giorno di agosto in cui Davide Rebellin vinse la Clasica. E proprio con Alfredo feci una nota tecnica. Gli dissi: «Io che ero un corridore scarso mi staccavo quando la salita dura finiva e la discesa non iniziava subito. Qui invece la salita dura finisce e la discesa inizia subito. Un corridore intelligente non si stacca». Venni a casa con questa convinzione, nonostante Alfredo e Fusi non fossero d’accordo con me, e me la portai fino alle convocazioni in cui tenni il posto per un velocista e il velocista principe per me era Crescenzo perché era veramente veloce.
Avevi visto giusto.
Per il destino, la fortuna e da ultimo anche il fatto di averci visto giusto, tutti i mondiali, ad eccezione di quello dei pro’ in cui ci fu una tempesta che cambiò le carte in tavola, arrivarono in volata. Solo che mentre negli under 23 non avevamo il velocista, gli juniores ce l’avevano e Crescenzo diventò campione del mondo.
Che tipo era Crescenzo D’Amore a 18 anni?
Bravo ed estroverso e lo dico con un affetto particolare: un vero napoletano. Per me i napoletani sono estrosi, simpatici, ironici, istrionici. Io avevo 32 anni, ero uno dei tecnici più giovani dell’epoca. Il rapporto con lui era particolare, sentivo di essergli veramente entrato nella testa, perché tutti i personaggi estrosi ma vincenti, mi viene in mente anche Pozzato, hanno bisogno di trovare qualcuno che non che gli imponga le cose, ma che li capisca.
Seguisti quel mondiale dai box?
Esatto, ma non avevamo la TV. Per questo eravamo collegati via radio con Roberto Damiani sulla parte alta del circuito. La foratura di Michele Scarponi ci aveva tolto una pedina importante e così cercavamo di arrivare in fondo, seguendo le fughe e con un occhio alla possibile volata. I tedeschi accanto a noi avevano invece la televisione e piano piano, ci infilammo nel loro box per vedere il finale. Ricordo che ai 200 metri Crescenzo venne chiuso. Ma fu bravo, perché con la mano e con la bravura imparata in pista, spostò il corridore davanti senza prendergli il pantaloncino o sbilanciarlo, altrimenti lo avrebbero squalificato. Semplicemente tolse la mano dal manubrio, spostò l’altro che lo chiudeva e lanciò la volata.
Cosa ricordi?
Negli ultimi 20 metri si spense tutto, diciamo così. Non lo vidi alzare le braccia, perché il mio meccanico, che era “Ciccio” Risi e aveva condiviso con me tutto lo stress di quella vigilia così faticosa, mi fece volare. Era decisamente più grosso di me, per la tensione della volata mi prese per il collo e mi spinse nel box dei tedeschi. Di fatto io non ho visto la vittoria, non mi resi conto di niente. Sapevamo tutti che il mondiale fino a quel punto non era andato bene. Gli altri tecnici continuavano a darci il tormento per aver portato un velocista. Nella crono, Daniele Bennati, attuale cittì della nazionale, non era andato oltre il 16° posto. Le cose non stavano andando bene, per cui quella volata fu una vera liberazione.
Cosa disse Martini dopo la vittoria?
Mi disse: «Bravo Davide, ci hai visto lungo». Ricordo che prima della gara gli avevo detto che San Sebastiano è anche il patrono di Renazzo, il mio paesino in provincia di Ferrara. E Alfredo che più di tanto non era religioso, mi aveva detto di parlare anche con lui, che se fosse servito per vincere i mondiali, anche il santo poteva fare la sua parte.
Il resto, la sua carriera da professionista, è un racconto successivo che non toglie nulla a quel giorno di San Sebastian. Un mese dopo ci ritrovammo a raccontarlo nella sua casa alla periferia di Napoli, fra l’azienda di confezioni di suo padre e i capannoni di Caivano attorno cui si formavano i corridori di lì. Crescenzo aveva il sorriso stampato sul volto, come se ogni cosa fosse possibile. Eravamo tutti più giovani e convinti di poterci mangiare il mondo. E lui quel giorno a San Sebastian il mondo se lo mangiò davvero, ma poi da buon amico lo divise con i compagni e diede merito a quanti lo avevano portato a giocarsi la chance più grande della carriera. Il resto non lo sapeva. Col resto purtroppo, toccherà a noi farci i conti e poi la pace.