Una foto su Facebook. Simone Consonni accanto a un gigante con lo sguardo buono. E’ Flavio Anastasia, classe 1969, altro azzurro della Cento Chilometri. Il bergamasco della Cofidis olimpionico a Tokyo nel quartetto su pista, il ragazzone di Como argento a Barcellona nel quartetto della Cento Chilometri su strada. Due storie così lontane eppure a loro modo vicine. E in comune lo stesso preparatore, Luca Quinti, e la sua palestra di Nova Milanese. Al pari di Gianfranco Contri, sceso di bici dopo due anni sfortunati all’Amore e Vita, Anastasia è sparito dalle scene. Lo si vede sui social, però mai in gruppo. Ci capitò personalmente di incontrarlo a Cesano Maderno in una serata in cui si presentava “Era mio figlio”, libro su Marco Pantani. Poi anni di silenzio, fino a quella foto che ha acceso la curiosità.
«Sentiamoci lunedì – dice – sono pasticciere, il lunedì è la mia domenica e sono a casa, anche se di solito faccio distanza. Di solito comincio a lavorare alle due del mattino. E’ pesante come orario, però mi piace. Subito dopo aver smesso, ho lavorato in un negozio sportivo che vendeva bici. Quindi ho fatto due anni in pasticceria, poi mio papà mi ha cercato per il negozio che vende mobili con mio fratello. Ci sono stato per due anni, però non mi piaceva e sono tornato a fare il pasticciere. Sono nel laboratorio. La sera vado a dormire alle nove e mezza, ma ogni tanto, qualche pomeriggio che non esco in bici, faccio un sonnellino».
Vivi sempre a Mariano Comense?
Vivo a Cesano Maderno, però lavoro a Mariano.
Segui il ciclismo?
Mi piace ancora. Pedalo perché mi piace far fatica e quando posso seguo la squadra di esordienti del Pedale Senaghese. Un paio di volte a settimana, forse tre esco con loro. Del mio ciclismo sono rimasti i diplomi e anche l’esperienza, perché il ciclismo ti insegna molto. Tutta quella fatica ti fa capire che davanti a qualsiasi problema, bisogna subito mordere, andare avanti e combattere. Come di recente quando hanno dovuto operarmi al cuore.
Sei sempre stato un cronoman?
La verità è che fino al 1989 non avevo mai fatto una cronometro. Poi venne come direttore sportivo Nizzolo, lo zio di Giacomo e mi disse che mi avrebbe fatto vincere l’italiano e così fu. Ma non è che in quei due anni da dilettante io ci abbia dato dentro più di tanto. Chiusi anzitempo la carriera per un problema alle ginocchia. Neanche si può dire che sia dipeso dai lunghi rapporti o carichi eccessivi, perché dei quattro della Cento ero quello che andava più agile. Venne fuori appena passato professionista con l’Amore e Vita, la cartilagine del ginocchio tutta distrutta sotto la rotula. Mi sono operato, ma ormai il treno era andato. Se fosse successo oggi, avrei risolto molto velocemente, sarei rientrato e avrei avuto una carriera diversa.
Invece cosa hai avuto al cuore?
Ho avuto una riparazione della valvola mitralica. Praticamente, anche non correndo più, facevo sempre la visita di idoneità e l’ultima volta trovarono qualche battito irregolare. Siamo andati a fondo e hanno trovato questo problema, la valvola non chiudeva più bene e rilasciava del sangue. Così mi hanno operato. Hanno aperto, scollegato, riparato e ricollegato il cuore. Ma da quel giorno non mi hanno più dato l’idoneità. Quindi adesso sono cicloturista, ma ci do dentro lo stesso. Il mio cardiologo ha detto che se non oltrepasso il limite posso andare.
L’altro giorno hai pubblicato quella foto con Simone Consonni. Lui ha vinto un’Olimpiade con il quartetto su pista, tu arrivasti secondo con quello su strada…
Le Olimpiadi mi bruciano ancora, solo adesso forse apprezzo quella medaglia d’argento. Ai tempi masticai amaro, però col passare degli anni ho imparato a pensare che qualsiasi sportivo farebbe la firma per riuscirci. Ma noi puntavamo all’oro, essendo usciti vincitori dal mondiale dell’anno prima e proprio a casa dei tedeschi che a Barcellona vinsero l’oro. Non siamo mai stati amici con loro, c’era una rivalità pazzesca. In casa loro gli rifilammo due minuti e mezzo, tanta roba! Alle Olimpiadi loro ce ne diedero uno, che però bastò…
Che cosa successe?
Alle Olimpiadi il percorso era duro per noi. Sul piano eravamo superiori. Ad esempio a Stoccarda 1991, il mondiale era tutto su una superstrada. Andata e ritorno, tutto pianeggiante e facemmo una grande differenza. A Barcellona invece c’era un po’ di dislivello e per me l’abbiamo pagata. Eppure per me i ricordi belli sono altri.
Quali?
Tanto di cappello per il mondiale del 1991, ma quelle che ricordo più volentieri sono le vittorie di Castelfidardo su strada e il Gran Premio d’Europa a Bergamo, la cronocoppie che corsi con il tedesco Thomas Hartmann.
Perché Castelfidardo?
C’era una fuga con più di due minuti e noi eravamo dietro a chiacchierare e ridere, con Alberto Destro e altra gente. Non ci pensavo più alla gara, però a un certo punto con la squadra, la Coalca, scatenammo un vero inferno e alla fine facemmo primo e secondo.
Guardi Consonni e cosa provi?
Un po’ di invidia perché è giovane, questa sì. Poi penso a me e affiora un po’ di rammarico. Però mi scuoto, mi dico che è andata così e… pace. Anche perché se continuo a pensarci poi mi viene il nervoso.
Cosa ti pare di questo ciclismo?
Mi piaceva di più il mio, senza radioline, un po’ allo sbaraglio. Invece adesso, con queste preparazioni precisissime e il controllo dei watt non c’è margine di errore. Certi strumenti vanno bene in allenamento, ma in gara secondo me via tutto. Di sicuro con questi stessi mezzi, nella Cento Chilometri saremmo potuti andare molto più forte.
Quanto era difficile a suo tempo passare professionisti?
Parecchio. Oggi si passa anche solo per qualche vittoria da juniores, però in effetti vedi Pogacar che a 23 anni ha già vinto due Tour e capisci che il ciclismo è cambiato. Però non tutti sono fenomeni, questo forse va considerato.
Ti senti ancora con i ragazzi della Cento?
Ci siamo appena visti a Milano per la consegna del Collare d’Oro, altrimenti cerchiamo di trovarci una volta all’anno.
Cosa ti ha lasciato il ciclismo?
Dei bei ricordi, che adesso magari racconto ai miei figli. Adesso che mi avete chiamato per questa intervista diranno che allora ero forte davvero. Rimane l’amaro di non averci provato davvero da professionista, quello mi pesa tanto. Ci penso ancora. Magari non sarei stato un corridore, però lo avrebbe detto la strada. Così adesso me ne vado in bici quelle 2-3 volte a settimana, il più delle volte da solo. Gli amici di una volta come Maggioni (Roberto Maggioni, azzurro della Cento Chilometri a Seoul 1988, ndr) tendono a evitarmi. Roberto è davvero una brava persona, ma forse ha visto qualche dato di allenamento e ha preso paura…