Che cosa succede nella mente di un atleta alle prese con un grande evento? La confessione di Eli Iserbyt, che ha ammesso di soffrire particolarmente le gare titolate, è una messa a nudo non comune fra i grandi sportivi, eppure abbiamo davanti agli occhi mille e mille casi di grandi atleti che, al momento decisivo, non riescono a cogliere quei risultati che si sono prefissi. Basta tornare alle scorse Olimpiadi, dove anche in casa italiana campioni che sembravano destinati al grande traguardo sono diventati la brutta copia di se stessi.
E’ un problema comune, tra i principali da affrontare nel mondo dello sport, non solo del ciclismo, e di non facile soluzione. Ne abbiamo voluto parlare con una psicologa specializzata in psicologia dello sviluppo e dell’educazione, Manuella Crini, partendo dal caso di Iserbyt come “exemplum” per sviluppare una casistica molto vasta: «Dal suo racconto si evince come lo stato d’ansia in quei casi travolga tutto il resto. E’ come l’interrogazione al liceo che assume contorni talmente ampi emotivamente da farti dimenticare tutto quello che hai studiato. L’ansia mette in moto neurotrasmettitori che possono essere positivi ma anche negativi: quando ci troviamo di fronte a un ostacolo, il nostro corpo produce maggiore cortisolo che serve ad essere maggiormente reattivi, una maggiore quantità di sangue raggiunge la corteccia della promemoria per andare oltre i propri limiti, ma non sempre questo è un bene».
Perché?
L’ansia può trasformarsi in paura e la paura può avere come effetto quello di paralizzare le nostre funzioni. E’ un meccanismo animale, nel quale ci sentiamo prede. Questa paura influisce sulla prestazione fisica, ci impedisce di ottenere il massimo dal nostro corpo. Come si vince? Non è facile, ma bisogna riuscire a capire cos’è il meccanismo scatenante, spesso un trauma pregresso se parliamo di uno schema ripetitivo nel tempo. C’è poi un altro fattore inconscio che può influire.
Quale?
Se quel grande traguardo diventa il fine principale della nostra attività, posso anche lasciarlo all’orizzonte, prolungare il “viaggio” prima di arrivare alla meta e quindi perdere piuttosto che vincere per non chiudere quel capitolo, intimorito da quel che verrà dopo. Invece rimango in questa sorta di limbo, continuo a lavorare per arrivarci pensando alla prossima volta.
E’ anche vero che, come Iserbyt ci ha testimoniato, nella grande occasione si inizi a pensare troppo all’importanza dell’evento, alla responsabilità…
E’ assolutamente possibile. Noi siamo perfettamente in grado di agire sul nostro cervello e le sue dinamiche, possiamo produrre più o meno serotonina che serve a concentrarsi, così nel caso negativo finiamo per vanificare meno quel che dobbiamo fare per arrivare a quel famoso traguardo. Ci perdiamo. Sentiamo che quell’evento è senza appelli. Ci sentiamo addosso lo sguardo di tutti, pronti a giudicarci se raggiungeremo o meno il determinato risultato.
Quanto influisce l’esperienza, l’età dell’atleta?
Molto, perché per un ragazzo il peso è minore in quanto c’è meno vissuto dietro le spalle. Non c’è per così dire un excursus storico di fallimenti. Con l’andare avanti si ha sempre più il timore che quella sia l’ultima occasione e ancor più questo succede quando il traguardo non è molto ripetuto nel tempo, basti pensare all’Olimpiade che arriva ogni quattro anni. Ciò amplifica quella sensazione di situazione senza appello.
Quanto può servire in questi casi la presenza del mental coach?
Tantissimo, ma è un lavoro molto delicato. Bisogna mettersi in gioco, intraprendere un cammino che non sai dove ti potrà portare. Il mental coach ti aiuta ad affrontare la tua attività, a guardare a quell’evento in maniera positiva, ci si lavora sopra ma si possono anche aprire porte delicate. Il soggetto può ad esempio rimettere in discussione tutto il cammino svolto per arrivare a quel momento, perdere la motivazione, scoprire che lo sta facendo non per se stesso ma per gli altri, non per rispondere ai propri reali bisogni. Serve un percorso motivazionale che non si sa dove porterà. Oltretutto, si può arrivare a un punto nel quale la figura del mental coach deve cedere il passo a uno psicologo specializzato: se l’atleta si trova di fronte a questa crisi motivazionale che va al di là dell’evento e mette in discussione la propria attività, avrà bisogno di un supporto personalizzato diverso.
Il mental coach nelle squadre deve lavorare con più persone, questo non rischia in alcuni casi di essere limitante, di non poter dare all’atleta quel supporto di chi avrebbe bisogno?
Rientriamo nel discorso appena fatto. Il mental coach, più che sull’individuo, lavora sul personaggio, non è un terapeuta, ma nel corso delle sedute possono venir fuori aspetti che richiedono la figura di quest’ultimo. Il mental coach può anche trovarsi di fronte a un conflitto d’interessi: è chiamato a esaltare le prestazioni sportive dell’atleta che invece può tendere verso tutt’altra direzione e a quel punto l’etica impone di passare la mano.
Il grande evento può diventare un ostacolo anche in corso d’opera? Prendendo sempre Iserbyt come esempio, in fin dei conti pur essendo ancora molto giovane le sue gare titolate e le sue medaglie le ha vinte, soprattutto nelle categorie giovanili…
Sicuramente, può avvenire all’improvviso, nel corso del tempo può anche cambiare la percezione della propria prestazione. Quel che da giovane, nelle categorie avveniva quasi con facilità può diventare difficilissimo fra gli “adulti” e questo accresce l’insicurezza, ci si sente piccoli di fronte a qualcosa di troppo grande. Essere al top è molto stressante, la capacità di gestire questa condizione può fare una grande differenza.