Parlare con Miriam Vece è uno spasso. Forse perché è abituata all’esilio svizzero e non vedeva l’ora di parlare un po’ italiano. Oppure perché come ogni velocista che si rispetti, ha in circolo la giusta dose di follia. La sua storia è singolare e qualcuno l’ha gia raccontata. Ma un po’ di compagnia non guasta, per cui dopo gli europei abbiamo bussato alla sua porta, trovandola in Italia, prima che sparisca nuovamente in Svizzera.
Le cose vanno così. Miriam vive a Romanengo, provincia di Cremona. E quando inizia a correre, si rende conto che la salita non fa al caso suo. In più dicono che la mischia delle volate la renda nervosa e così pensa di passare alla pista. Non immagina ancora che cosa significhi in Italia essere una velocista, ma lo scopre alla svelta. Infatti nel 2018, anno in cui vince due titoli europei U23 nei 500 metri e nella velocità, il cittì Salvoldi le propone di entrare nel centro Uci di Aigle. Qua non avrebbe compagne con cui allenarsi, ad eccezione di Elena Bissolati con cui divide i ritiri azzurri. Lassù migliorerà di certo. Il dado è tratto e a fine 2018 scatta il piano. I risultati iniziano a vedersi. Ai Giochi Europei di Minsk 2019 arriva il bronzo nei 500 metri. Agli europei dello stesso anno, l’argento nei 500 metri e il bronzo nella velocità. Ai mondiali di Berlino 2020 il bronzo nei 500 metri. Mentre ai recenti campionati europei di Plovdiv, Miriam è rimasta fuori d’un soffio dalla semifinale della velocità e ha preso il bronzo nei 500 metri, a 50 centesimi dall’argento.
Perché sei una velocista?
Correvo su strada e ho visto che la salita non mi piaceva. Non ci ho messo tanto, giusto tre gare da junior (ride di una risata contagiosa, ndr).
Così hai scelto la specialità meno affollata d’Italia…
Quella è proprio la parte più dura. Sei da sola. In palestra. In pista. Un mondo completamente diverso. Stando in Svizzera almeno c’è un gruppetto di 5-6 ragazzi con cui scambiare due parole.
Come funziona la settimana lassù?
Di solito tutte le mattine, rulli o wattbike (una bici statica su cui fare potenziamento, ndr). Poi due sessioni a settimana in palestra. Due o tre sessioni in pista. Il sabato uscita su strada e la domenica riposo.
Sembra divertente quanto un corso ufficiali! Certo immaginando gli stradisti che escono e fanno ripetute all’aria aperta…
A volte è divertente anche un allenamento durissimo (sorride, ndr), ma il caffè al bar ci tocca soltanto il sabato.
A cosa pensi vedendo il vuoto di vocazioni nella tua specialità?
Penso che se faccio risultato, si crea movimento, ma la vedo dura. Penso che in Italia non ci sia la mentalità, perché si tratterebbe di abbandonare la strada. E poi le ragazzine hanno l’esempio della Paternoster e del quartetto. E da quest’altra parte ci siamo soltanto Elena ed io.
Di recente Daniela Isetti, candidata alle elezioni federali, ha detto di voler potenziare il settore velocità perché assegna parecchie medaglie olimpiche.
Ci sono tre medaglie, non poche. Ma c’è anche l’adrenalina e l’emozione. L’ansia prima della gara, la concentrazione. Non sono discipline banali.
Si percepisce il cambio di passo. Sulla logistica si può scherzare, ma la passione è una cosa seria. La fatica quotidiana per andare più forte è un fronte su cui non si transige. Ed è giusto così.
Serve tanta forza. Con quali rapporti gareggi?
Nei 500 metri, uso il 56×15, che è il più agile e i permette di guadagnare nel primo giro. Nei 200 invece passo al 62×15.
Su strada si guarda al rapporto potenza/peso: nella velocità?
Il peso non incide tanto, ti agevola solo nelle partenze da fermo. Ma sono altre le cose da guardare, fra tecnica e forza.
Gli scalatori sognano Pantani, i velocisti vanno appresso a Sagan. E tu?
Per me c’è solo Miriam Welte, anche se ha smesso. Un po’ perché si chiama come me. Un po’ perché nella velocità olimpica fa il primo giro come me. E poi perché ha vinto il mondiale nei 500 metri che sono la mia specialità.
Ti senti con Salvoldi o sei completamente in mano agli svizzeri?
E’ stato Dino a darmi la possibilità di andare su e ci sentiamo spesso, anche se il lavoro lo impostano i tecnici di Aigle.
Torni spesso a casa?
Poco, prima delle gare o un weekend al mese.
Corri mai su strada?
Non farebbe male, ma vanno forte e anche solo stare in gruppo sarebbe una faticaccia.
Com’è la sistemazione di Miriam Vece nella… caserma Uci?
Stanza singola per tutti e da quest’anno il bagno in camera. Il bagno in corridoio era proprio brutto (risata argentina, ndr).
E dove si mangia?
Per fortuna adesso si mangia nel dormitorio, grazie al Covid (sospiro di sollievo, ndr). Prima si faceva tutto in pista e non era proprio simpatico. Adesso almeno mi sveglio coi miei tempi, faccio colazione, mi preparo…
A che ora ti svegli?
Alle 8 per essere in pista alle 10.
E la sera cosa si fa?
Gran vita (scoppia a ridere, ndr). Giochiamo a carte, Play Station, internet, televisione. Nei weekend si fa magari un giro sul lago. Praticamente è come essere in ritiro a vita.
E quest’inverno?
Non sappiamo molto, non si sa quando si faranno gli europei ed è certo che non ci saranno gare di classe 1 e 2. Starò un po’ a casa, poi tornerò a Aigle. Meglio non perdere tempo.
Questa intervista è stata davvero uno spasso…
Non sono una delle più forti, ma almeno sono divertente.
Ma la domanda a questo punto è la seguente: la permanenza di Miriam Vece in Svizzera finirà dopo Tokyo oppure è un… ergastolo?
Da una parte spero sia un ergastolo. Sono arrivata su che stavo già facendo dei buoni tempi grazie alla preparazione con Dino, poi da quando son lì sono in continuo miglioramento. E francamente credo sia uno dei pochi modi per vedere fino a dove posso arrivare.