C’era una volta uno scalatore venuto dal freddo di Riga, quando ancora la Lettonia era parte dell’Unione Sovietica. A cronometro non era niente male, così si concentrò sui grandi Giri, diventando presto uno dei massimi interpreti, solo che quello era il periodo di gente come Miguel Indurain e Marco Pantani, così Piotr Ugrumov divenne l’eterno piazzato: 2° al Giro ’93, 2° al Tour ’94, 3° al Giro ’95, ben 7 volte nella Top 10 di una corsa di tre settimane.
Finita la carriera, Piotr Ugrumov, che nel frattempo si era innamorato dell’Italia più che della Spagna dove pure aveva corso da professionista, prese casa a Rimini e ha iniziato a lavorare con i più giovani, per trasmettere tutta la sua vasta conoscenza: «Lavoro con i ragazzi dell’Euro Bike Riccione – dice nel suo italiano dove l’accento russo ormai si confonde con quello romagnolo – ma è solo l’ultimo capitolo di un lungo viaggio».
Sei sempre rimasto in Romagna?
No, ho iniziato a Salò con i più giovani passando poi per Padova, Rimini, per 7 anni sono anche stato dirigente alla Katusha, dove coordinavo il lavoro dei direttori sportivi. Ma niente è più divertente di lavorare con i ragazzi, spiegare loro la posizione in bici, insegnargli a guidare, vedere che a inizio anno non finiscono neanche le corse e alla fine arrivano sempre nei primi 10. Vale come una vittoria…
Hai nostalgia del ciclismo professionistico?
Ho vissuto di ciclismo agonistico per 25 anni, facevo qualcosa come 32 mila chilometri l’anno, ho fatto più di 20 grandi Giri, insomma è stata una parte importante della mia vita. Ma ora è un ciclismo molto diverso dal mio.
Perché?
Basta guardare le bici. Ai miei tempi avevi i manettini al telaio, come alla mia Bianchi del ’95, un pacco pignoni da 7-8, ora ci sono 11 rapporti, ora misurano le bici che non devono pesare più di 6,8 chili, la mia ne pesava 9 e ci facevo Giro e Tour.
Tu eri abituato a fare almeno due grandi Giri a stagione: credi sia possibile anche al giorno d’oggi, puntando alla classifica in entrambi?
Io dico di sì, forse anche per fare doppietta come Pantani nel ’98. Serve innanzitutto fortuna, non avere problemi tecnici e di salute per tutto l’anno, ma se fisico e testa reggono si può ancora fare. Secondo me è prima di tutto una questione psicologica.
C’è qualcuno nel ciclismo attuale nel quale ti rivedi?
Io ero uno scalatore puro che andava forte anche a cronometro, direi che Bernal è quello che mi assomiglia di più, ma la domanda è un’altra: i giovani campioni di oggi avranno la durata che avevamo noi? Noi rimanevamo sulla breccia anche per un decennio. In questo senso chi mi impressiona di più è Valverde che a 41 anni va ancora così forte, quello è davvero un grande campione. Quelli di oggi dureranno altrettanto? Solo il tempo potrà dare una risposta…
Restiamo in tema di paragoni: tu correvi con un certo Evgeni Berzin, che fece saltare il banco al Giro del ’94. Trovi delle somiglianze con Remco Evenepoel?
Sì, il paragone è giusto. Berzin a 20 anni era già stato campione del mondo di inseguimento, quindi entrambi sono emersi molto presto. Il belga è un fenomeno fisico, secondo me, ma resta sempre l’incognita se questo rendimento così alto da giovanissimo lo esaurirà prima del tempo. Si diceva la stessa cosa di Cunego, ricordo.
Perché sei così scettico sui giovani odierni?
E’ come una macchina nuova: se la porti subito a giri elevati e la spingi sempre al massimo, si logora prima. Credo che per costruire la carriera di un corridore sia anche importante saperlo dosare, gestire al meglio. Tornando a Berzin ed Evenepoel, Evgeni era uno che voleva tutto e subito, spero che Evenepoel sia consigliato meglio, ma sembra un ragazzo concentrato e che sa ragionare. Staremo a vedere…