La tanto sospirata squadra italiana del WorldTour ce l’abbiamo avuta fino al 2016. Si chiamava Lampre-Merida, aveva 13 corridori italiani e 14 stranieri. Il gruppo sportivo era in mano a Giuseppe Saronni, ma di lì a poco sarebbe passato a Gianetti diventando UAE Team Emirates.
25 anni di Lampre
Lampre nel ciclismo c’era entrata nel 1999 e quando ne uscì fu come perdere qualcuno di famiglia, abituati al blu e al fucsia delle maglie e all’idea che quella squadra semplicemente ci fosse, dopo il passaggio della Liquigas in mano agli americani. Mario Galbusera, titolare del gruppo assieme ai figli Sergio ed Emanuele, era spesso alle corse con baffi bianchi e carisma (i tre sono insieme nella foto di apertura). Così quando al raduno di partenza del Lombardia a Bergamo, abbiamo riconosciuto Emanuele Galbusera davanti al pullman della Trek-Segafredo, la speranza di un ritorno di fiamma l’abbiamo avuta, ma è durata poco. E in ogni caso ci siamo riproposti di contattarlo per capire quale insormontabile ostacolo ci sia fra le grandi aziende italiane e il ciclismo.
Cosa ci faceva a Bergamo vicino al pullman della Trek-Segafredo?
La passione rimane (sorride, ndr).
Quindi parlare di una Lampre-Segafredo sarebbe una bufala?
Confermo, una fake news!
Vabbè, era giusto provarci. Che cosa è stato il ciclismo per Lampre?
Un’enorme vetrina, un bel ritorno di immagine. Non produciamo un prodotto finito, siamo specialisti nel rivestimento del metallo, per cui essere nel ciclismo è stato il modo per promuovere il marchio.
Parliamo di un investimento stellare?
Non abbiamo mai attuato una politica di questo tipo, volevamo piuttosto rimanere costanti, per durare a lungo, come poi è stato. In quegli anni, la costanza era il requisito fondamentale, per un ambiente che poi ha cambiato il modo di promuovere i suoi sponsor, che sempre più spesso propongono prodotti e servizi.
Pensa che il ciclismo sia ancora un utile veicolo promozionale?
In ambito sportivo, lo valuteremmo ancora. Ma bisogna chiedersi se mettere il nome su una maglia sia ancora utile. Di certo lo strumento squadra ti dà visibilità ogni giorno per 365 giorni all’anno. Mi chiedo però se per un’azienda come Lampre sia ancora il veicolo giusto per far conoscere il proprio marchio, ricorrendo a uno strumento di marketing in stile anni Ottanta. Però va detto che all’estero funziona…
Quindi?
Quindi forse è un fatto di come il ciclismo viene vissuto in Italia. L’attività di base è ai minimi termini. I ragazzi di oggi cominciano mille sport, ma quasi mai vogliono prendere una bici. I miei cinque figli, nonostante io sia appassionato, non l’hanno mai valutato. Credo ci sia un tema generale che prescinde dal team WorldTour.
Manca un movimento che autorizzi o invogli l’investitore?
Questo è certamente un tema, il settore giovanile è asfittico e non è però compito dei team di punta fare promozione di base. Faccio l’esempio del Trofeo Lampre di Bernareggio. Abbiamo avuto anni in cui mandavamo indietro le squadre e alla fine lo abbiamo chiuso perché le squadre non si trovavano più.
Per un po’ si è detto che il deterrente per le aziende fosse finire in qualche storia di doping.
Siamo stati nel ciclismo per 25 anni, abbiamo vissuto tutte le epoche e in quella fase qualche paura di questo tipo c’era. Ricordo bene le discussioni con potenziali sponsor, ma quell’epoca ormai è consegnata alla storia, per cui bisogna trovare il modo di attrarre risorse serie.
Ivan Basso, che si è costruito come manager, dice che si è andati per anni a chiedere soldi senza proporre un ritorno ben documentato…
Ci sta che la proposta sia stata sbagliata. La battaglia storica è quella di patrimonializzare e responsabilizzare le società sportive, perché abbiano più certezze e non dipendano solo dagli sponsor. Ma è anche vero che squadre e sponsorizzazioni una volta si basavano sulla passione. Quando abbiamo mollato, chi ha proseguito lo ha fatto con altre tipologie di sponsor.
Come si riparte?
Dimostri e convinci se fai vedere che c’è una base.
Perché però a un certo punto, secondo lei, la Mapei lasciò il ciclismo e si buttò nel calcio? Non sarà che in Italia si vede solo quello?
Non so bene il perché delle scelte di Squinzi, ma immagino che come azienda abbia avuto questa possibilità e l’abbia colta. E poi non dimentichiamo che Giorgio era un grande appassionato di calcio. Pensate invece che la Lampre funzionò al contrario…
Cioè?
Da ex calciatore, papà stava acquistando la squadra del Lecco, ma non andò bene. La stessa sera, lo chiamò Colnago e per rivalsa, rimise la cravatta e andò a incontrarlo. Però è vero che al ciclismo manca il necessario supporto. La Lega Ciclismo, com’era una volta, coinvolgeva sponsor importanti, avendo il necessario supporto mediatico e anche politico.
Anche il supporto mediatico è sceso parecchio. La Gazzetta dello Sport fatica molto a sparare il ciclismo in prima pagina…
Il giovane guarda il calcio e non il Giro di Lombardia e anche io mi chiedo come mai, dopo una stagione così bella, non si trovi spazio. Eppure sulle strade i tifosi ci sono ancora. Che sia un problema di formula, cioè che una gara che dura molte ore e proposta in diretta integrale funzioni meno di una partita che finisce in 90 minuti?
Vi propongono spesso di rientrare?
Più volte, anche di recente. La passione è sempre presente, ma abbiamo lasciato un WorldTour diverso, in cui inserirsi non è facile. E poi non è bello il vuoto che c’è sotto. Prima al di sotto della massima categoria c’era un circuito meno legato a logiche di mondializzazione e questo è un altro tema. Si spendono fortune per viaggi nel mondo che magari allo sponsor non interessano. Di certo non interesserebbero ad alcuni sponsor italiani. C’è un grande scollamento e per un nome come il nostro, abituato a stare in alto, l’idea di partire dal basso non è troppo allettante.
L’idea è che si parta dal basso per ottenere la promozione nel WorldTour…
Un’idea teorizzata in Svizzera 15 anni fa, che però ha troppe criticità. I punti vanno fatti nello stesso campionato, con regole uguali per tutti. Non vi sembra che per come è adesso sia un po’ una confusione?