BOLZANO – Stiamo scendendo da Cavalese in direzione Ora, lo scricchiolio della strada ghiaiata sotto le ruote ci sta accompagnando in una discesa che ripercorre il vecchio percorso del treno. Le curve si susseguono e davanti a noi abbiamo un ragazzo classe ’97 alto 1,96 che danza tra le curve sulla sua bici in titanio. Si chiama Brennan Wertz, è californiano ed è un corridore professionista gravel. Ma cosa ci fa uno statunitense sulle Dolomiti?
Brennan è sponsorizzato da Q36.5 ed è venuto in Italia per disputare il campionato del mondo gravel. La sua storia merita di essere raccontata, ex vogatore dell’Università di Stanford e della nazionale USA con cui è stato campione del mondo U23. In seguito a un infortunio ha iniziato a pedalare su una gravel e da lì è iniziato il suo percorso off-road. Così ci siamo fatti raccontare la sua storia e come sia il gravel negli Stati Uniti dove è nata questa disciplina.
Come sei arrivato al gravel?
Ho trascorso otto anni remando, viaggiando per il mondo, gareggiando con la nazionale oltre che con il mio team universitario. Penso che sia stato di grande aiuto per costruire il mio fisico attuale, è lì che ho messo le basi per il motore che ho oggi. Prima del gravel facevo MTB, anche se non ho mai corso. E’ sempre stato solo per divertimento.
Poi cos’è successo?
Poi è arrivato l’infortunio mentre remavo. Avevo un’infiammazione ai muscoli delle costole. La tipica storia di qualcuno che si infortuna e inizia a pedalare per recuperare. Così mi sono reso conto di quanto fosse divertente la guida di queste bici. Devo dire che il tempismo ha giocato a mio favore. Sono molto fortunato che questo tipo di scena gravel sia esplosa negli ultimi quattro o cinque anni negli Stati Uniti.
Com’è il gravel negli Stati Uniti?
E’ decisamente più comune. E’ una disciplina che è in circolazione da tanto. Alcune gare vanno avanti da oltre 10 anni, quindi vanta già un’esperienza consolidata. Penso che negli ultimi quattro o cinque anni il gravel sia diventato davvero più popolare e che ci siano alcuni corridori chiave che in un certo senso hanno attirato molta attenzione su di esso. Ragazzi come Ted King, Ian Boswell, sono arrivati direttamente dal WorldTour e sono diventati un esempio di specialisti del gravel.
Come sei arrivato ad essere un pro’?
Io penso di essere in una posizione unica, sono una delle prime persone a diventare professionista nelle corse gravel senza aver partecipato al WorldTour. Ancora oggi, molti dei ragazzi che corrono professionalmente nel gravel provengono da lì e forse sono in… pensione o hanno semplicemente deciso che ci sono più opportunità in questa disciplina o perché gli piacciono di più queste corse. Quindi lasciano la strada per andare sulla ghiaia. Io ho iniziato a pedalare a livello agonistico solo nel 2019, è ancora un periodo piuttosto breve. Penso che sia una scena che al momento gode di molto slancio, energia, entusiasmo e industrie che investono su di essa.
Lo praticano in molti il gravel in USA?
Sì, alle persone piace davvero. Quando vado alle gare, ci sono migliaia di partecipanti ed è davvero una bella opportunità. Possiamo stare tutti con lo stesso obiettivo sulla stessa linea di partenza e vivere un’esperienza condivisa.
Che idea ti sei fatto del gravel in Europa?
Penso che sia decisamente differente. E’ banalmente un habitat diverso dove praticare questo sport. Negli Stati Uniti, abbiamo queste strade agricole che sono semplicemente sterrate, dove ci potrebbero passare quattro auto in larghezza. Vai dritto per miglia e miglia, poi c’è una svolta e poi di nuovo dritto, e poi un’altra svolta e di nuovo dritto. Le curve che incontri sono sempre a 90° suddivise in una specie di griglia di strade che si incrociano. Credo che l’Europa sia anche semplicemente più piccola, con più patrimonio culturale e storia, le persone vivono qui da più tempo. Ci sono queste strade strette e tortuose, con tutte queste curve. Per esempio ai campionati del mondo in Italia, attraverso i vigneti, non siamo mai andati dritto per più di un minuto o due. Curva, contro curva, su e giù. Questo cambia lo stile delle corse. E’ più aggressivo, corri rilanciando ad ogni svolta. E’ uno sforzo molto diverso e di conseguenza anche il suo approccio è differente. Negli Stati Uniti basta spingere per ore e guidare tra i 300 e i 500 watt ininterrottamente. Qui invece si hanno dei picchi di potenza costanti.
Ti è piaciuto il mondiale in Italia?
Sì, moltissimo. Aveva un percorso che non mi si addiceva molto, per queste salite davvero ripide con punte a più del 20 per cento. Ma non ho mai visto fan come quelli che abbiamo avuto quel giorno. C’erano persone così appassionate. Urlavano e facevano il tifo per noi su ogni salita toccandoci e spingendoci. Ricordo che le salite quel giorno mi hanno penalizzato e sono finito nelle retrovie. Nonostante ciò, la gente urlava e mi incitava. Negli Stati Uniti le nostre gare sono davvero isolate, in mezzo al nulla e puoi passare ore senza vedere nessuno. E’ stata un’esperienza super divertente. Un percorso bellissimo dove non bastava essere forti, ma bisognava anche essere bravi a guidare la propria bici.
Che bici usi?
Io pedalo su una Mosaic Cycle GT-1 45 in titanio. Ho avuto anche bici in carbonio, ma devo dire che questo materiale per me si sposa al meglio con il gravel per come lo intendo io. Posso fare un single track senza preoccuparmi, viaggiare senza stare in pensiero. E’ una bici robusta, leggera e molto comoda. Questo telaio lo uso dal 2021 e può fare ancora tante miglia.
Come è nata la tua sponsorizzazione con Q36.5?
Negli Stati Uniti per correre non hai bisogno di una vera e propria squadra, ma devi crearti un nucleo di sponsor. Con Q36.5 ci siamo trovati d’accordo fin da subito, i nostri intenti erano gli stessi. Con loro collaboro anche per il test di prodotti e sono ambassador negli Stati Uniti. Mi piace davvero la tecnicità dei prodotti che hanno e lo studio che c’è dietro ognuno di esso.