Alice nel Paese delle Meraviglie. Ci si sente un po’ così, al primo approccio con le Olimpiadi. Una città si consacra allo sport, radunando tutto il meglio che c’è al mondo in quasi tutte le discipline, almeno le più conosciute, per assegnare quel titolo che, più di ogni altro, può cambiare la vita. E’ con questi occhi che Andrea Collinelli si avvicinò ad Atlanta, alle Olimpiadi targate Coca Cola. Sono passati 25 anni, ma il ricordo è ancora vivido nella sua come nella mente di tanti appassionati, perché quell’avventura si concluse come meglio non si poteva.
Una bella favola, anche se a raccontarla dopo tanto tempo i contorni perdono un po’ di lucentezza: «Ero un novizio, ma mi aspettavo che si potesse vivere tutti insieme, invece noi del ciclismo eravamo decentrati, a una ventina di minuti dal villaggio olimpico. Dovevamo preservare la concentrazione, così andavamo al centro solo per pranzo e cena, prendendo un trenino. Ma questo non è il particolare che più mi è rimasto impresso…».
E cosa allora?
La fatiscenza degli alloggi. Erano terribili: pavimenti in linoleum, brandine in ferro, stanze spartane, come nei peggiori ostelli, il che faceva un po’ a pugni con le location, davvero bellissime: quando andavamo al villaggio vedevamo le ville delle varie delegazioni dove festeggiavano le medaglie di tizio o caio. E’ quello che ti faceva capire che non è una manifestazione come tutte le altre.
Che effetto fa vivere un’esperienza simile insieme a campioni di altri sport?
E’ quasi surreale: ti ritrovi al tavolo con il campione dei 100 metri oppure il tennista numero 1 al mondo, il nuotatore vincitore di chili di medaglie o la ginnasta in copertina su tutti i giornali. E senti nell’aria quella concentrazione massima verso un obiettivo che accomuna tutti. Pensi che per una volta la vittoria avrà lo stesso valore per ognuno, a prescindere dalla disciplina.
Tu non arrivavi ad Atlanta da sconosciuto…
Ero partito con la convinzione di poter vincere o quantomeno salire sul podio, l’anno prima ai mondiali in Colombia ero stato secondo. Ma sapevo anche che per ottenere questo risultato tutto doveva concatenarsi nella maniera migliore, devi rimanere concentrato e pensare a scaricare tutto quello che hai appena lo starter spara il colpo di pistola.
Le specialità ciclistiche contro il tempo sono state spesso al centro delle spedizioni azzurre e sarà anche così quest’anno, con Ganna su strada ma soprattutto alla guida dell’attesissimo quartetto dell’inseguimento. In prove simili quanto conta l’uomo e quanto il mezzo?
Bella domanda… E’ sicuro che per ottenere risultati vengono fatti sempre grandi investimenti tecnici. Io lavorai a lungo sullo sviluppo della bici a canna di fucile di Pinarello, ma rispetto ad allora sono stati fatti ulteriori ed enormi passi in avanti, si raggiungono livelli di penetrazione dell’aria impensabili ai miei tempi. Bisogna pensare che in prove simili tutti aiuta, un manubrio particolare può fare la differenza esattamente come un copriscarpe…
Rispetto a un quarto di secolo fa, la concorrenza in queste discipline (ricordiamo che l’inseguimento individuale dove Collinelli conquistò il titolo olimpico e dove Ganna è campione e primatista mondiale non si disputa più alle Olimpiadi da molti anni, ndr) è aumentata?
La concorrenza è sempre stata tanta, ci sono scuole ciclistiche che hanno sempre investito su queste discipline a cominciare dai Paesi di lingua inglese. Poi è chiaro che lo sport è ciclico, ma è altrettanto chiaro che ogni epoca si caratterizza per i suoi investimenti e per le sue specifiche tecniche e quest’anno non sarà così diverso.
Che cosa significa vincere un oro olimpico?
Non è paragonabile con alcun’altra vittoria. Se dopo 25 anni siamo ancora qui a parlarne, se vengo intervistato per questo, capisci che è qualcosa che resta. Quando vinsi, non compresi subito la portata dell’impresa, sembrava una vittoria come le altre, lo capii bene in seguito… Anche perché ero stato il primo italiano a vincere l’oro nella specialità e rimasi anche l’ultimo.
Come si affronta una gara olimpica?
E’ fondamentale cancellare dalla mente tutto quello di cui abbiamo parlato finora. Bisogna controllare la pressione e pensare che in fin dei conti è una gara come un’altra, con le stesse regole, dove l’unica cosa che si può fare è dare il meglio di se stessi. Ricordo che quando affrontai la finale, ero tranquillo, concentrato. All’arrivo, vedendo il risultato, mi sentii come se un grosso peso mi si fosse levato dalle spalle, se tutto il cammino fatto per arrivare lì fosse finalmente concluso e scoppiai a piangere.
Che cosa consiglieresti quindi ai ragazzi e alle ragazze a Tokyo?
Premesso che sono ragazzi che conosco bene, con cui ho condiviso anche parte della preparazione, ho detto loro di non pensare all’evento e viverlo nella maniera più distaccata possibile. Da questo punto di vista le condizioni particolari dei Giochi giapponesi, senza pubblico, aiuteranno. Bisogna vivere quel che succederà senza nervosismi, isolandoti dall’evento in sé.
Sei ottimista su quel che potranno fare?
E’ un gruppo che ha lavorato bene, bisogna essere consapevoli di questo, poi l’arrivo delle medaglie dipende da tanti fattori, ma io penso che ci sarà modo per sorridere.