All’appello mancava solo lui, Giuseppe Calcaterra, l’ultimo grande passista del fantastico “treno rosso” della Saeco. Quello che lanciava Mario Cipollini verso le sue volate. Dopo aver ascoltato Fagnini, Fornaciari e Scirea, ecco la volta del passistone lombardo.
Lui era il capo del treno. Lavorava da lontano. Svolgeva “lo sporco lavoro che qualcuno deve pur fare”. Giuseppe alzava la mano e gli altri del team sapevano che toccava a loro.
Tirate infinite
«Eh sì, organizzavo la rimonta – racconta Calcaterra mentre è di ritorno da un pranzo proprio coi suoi vecchi colleghi – calcolavo che la fuga non fosse composta da più di 3-4 corridori, altrimenti sarebbe stata pericolosa, e cercavo di capire il distacco massimo che poteva raggiungere. Sapendo che potevamo recuperare anche più di un minuto in dieci chilometri, quando si era a 50 chilometri dall’arrivo non ci dovevano essere assolutamente più di cinque minuti di ritardo. Quando il distacco arrivava al limite iniziavamo a tirare. E chiaramente toccava sempre a noi, con Cipollini che vinceva in quel modo era normale che fosse così. Certe volte tirai anche per 80 chilometri».
E fa bene a parlare al singolare Calcaterra. Fagnini, Scirea e chiaramente Re Leone entravano in scena nel finale, lui invece si sobbarcava il grosso del lavoro. Magari era aiutato dal povero Galletti, o da Petito o da chi c’era in squadra. Ma lui era uno dei vagoni fissi del treno rosso. E non sempre gli altri erano super disponibili e votati alla causa, a quanto pare.
«Eravamo tutti motivati – spiega Calcaterra con passione – ma ricordo un anno che con noi c’era un tedesco molto forte a crono. Ma quando doveva tirare nella tappa non ce la faceva. Faceva il furbo, non era forte di testa… fatto sta che la velocità la sapeva fare, ma quel passo poteva tenerlo eccome. Quel lavoro se lo dovevi fare dovevi essere convinto.
Un treno automatico
Calcaterra passò professionista nel 1986 nell’Atala-Omega. Era un buon dilettante e infatti non fu subito gregario.
«Nei primi anni vincevo qualche corsa, fino al 1993 ne ho conquistate una decina almeno, e avevo il mio spazio. Ma nel ciclismo se non vinci quella corsa importante o quel paio di gare a stagione, fai fatica poi a trovare un contratto, non è come nel calcio. Quindi finii all’Amore e Vita. Un paio di stagioni non buone, poi ripresi ad andare bene e quando arrivò l’offerta dalla Mercatone Uno (foto in apertura, ndr) decisi di cambiare “ruolo”. Fu Pezzi a volermi e anche Cipollini. A quel punto capii che dovevo aiutare e infatti con Mario corsi ben sette stagioni, fino a che non smisi, cosa che avvenne nel 2001 (ultima corsa la Roubaix).
«Sapevamo sempre cosa fare. Eravamo ben attrezzati e se al mattino sapevamo che dovevamo arrivare in volata, si arrivava in volata».
E questa cosa, guarda caso, la sera stessa dopo aver sentito Calcaterra ce la conferma durante una cena lo stesso Cipollini, che racconta come lui e la sua Saeco sapevano cosa dovessero fare. Salutini, il loro diesse, non doveva dirgli nulla.
«Ogni vittoria, la sentivamo anche nostra. C’era un gran lavoro di squadra», aggiunge Calcaterra.
Quel giorno sul Mortirolo
Chissà cosa avrebbe fatto Giuseppe con una tappa tipo quella dell’altro giorno all’UAE Tour con i ventagli praticamente dal chilometro zero.
«Eh dovevi essere pronto già prima del via – racconta Calcaterra – al chilometro zero dovevi essere davanti, altrimenti era finita. Noi quelle situazioni le studiavamo, sapevamo come fare con il vento. Ma non era come oggi che con la tecnologia (e i mezzi che precedono la corsa, ndr) sanno tutto. A noi magari cambiava in corsa, si alzava il vento per 30-40 chilometri e dovevi essere pronto».
Per fortuna ai passistoni del treno rosso i “cavalli” non mancavano, senza contare che sapevano far quadrato e farsi rispettare.
«Oggi credo che il mio ruolo sia cambiato o che non esista proprio più. Non vedo squadre che possono fare quel lavoro che facevamo noi, un treno come il nostro non credo tornerà più.
«E comunque non lavoravamo solo per Cipollini. Un ricordo molto forte che ho, fu la mattina dello stop di Pantani nel 1999 a Madonna di Campiglio. Eravamo nell’hotel insieme a colazione. Noi avevamo Savoldelli che al via era in maglia rosa anche se lui non la indossò. Ricordo che io e Fornaciari tirammo tutto il giorno per portare Paolo davanti all’imbocco del Mortirolo. Cipollini lo prese con 25′ di ritardo, ma in cima ci riprese! Noi eravamo stanchi okay, ma i suoi tanti tifosi, come dire… lo aiutarono!».