Remco Evenepoel ha vinto la Vuelta e con questo successo è stato il primo corridore “di Bruxelles” a riportare un grande Giro in patria dopo 44 anni. L’ultimo fu il Giro d’Italia del 1978 di De Muynck. E se su Remco c’era già una grande attenzione mediatica, adesso tutto si è amplificato. La pressione è maggiore.
Le attenzioni (già alte) sono aumentate a dismisura su di lui. Appena un giorno dopo aver vestito la maglia rossa a Madrid sono apparsi titoli come “Si è fatta la storia”. O sono divampate le attese su cosa farà al mondiale: “Ieri è atterrato in Australia”. Ci si chiedeva quale grande Giro correrà il prossimo anno e se può vincere un Tour. Senza parlare della vita privata…
Fatto questo preambolo abbiamo chiesto a due personaggi che in Belgio non solo ci sono stati, ma hanno anche vinto. E ci sono stati in un periodo storico a dir poco florido, la metà degli anni ’90. Parliamo di Serge Parsani, direttore sportivo della Mapei, e di Gianluca Bortolami, che di quella super corazzata era un corridore. Entrambi sono stati al fianco di un certo Johan Museeuw, che prendiamo come esempio.
Parla Parsani
Certo da allora le cose sono cambiate un bel po’ e lo vedremo da quanto ci hanno detto. Decisiva è stata la spinta dei social e delle informazioni online, ma l’attenzione verso il ciclismo è sempre stata forte, fortissima in Belgio.
«Personalmente – dice Parsani – non è stato troppo difficile per me inserirmi in quel contesto. Io avevo iniziato a seguire i belgi già ai tempi della Gb-Mg e con me già c’era Museeuw. Eravamo una squadra italiana che aveva anche sponsor belgi e così mi sono ritrovato con corridori importanti e una struttura belga lassù: per questo è stato “facile”. Abbiamo raccolto molto con Mapei, Asics e poi con quello che è divenuto il gruppo della Quick-Step».
Primi addetti stampa
Da questa evoluzione si capisce anche il perché una squadra come la Quick Step sia così forte lassù.
«Come gestivamo la pressione intorno a Museeuw? Anche questo aspetto era facile. Prima di tutto siamo stati tra i primi ad avere un addetto stampa (Alessandro Tegner che ancora fa parte del gruppo di Lefevere, ndr), ma poi erano diversi i tempi.
«La stampa ci stava addosso, ma sempre con rispetto. In Belgio poi c’è un’altra mentalità e c’era riconoscenza per questo sport molto popolare. E non c’era solo Museeuw, avevamo anche gente come Peeters, Steels… i nostri corridori si alternavano sulle prime pagine. Non dovevamo proteggerli per così dire. E loro erano contenti dell’interesse della stampa. E se individuavamo qualche giornalista che era più intento a cercare lo scandalo che a parlare di ciclismo… cercavamo di tenerlo lontano.
«Johan aveva la consapevolezza del leader, sapeva prendersi le sue responsabilità. Quando preparava la campagna del nord se non vinceva ci andava vicino e mi aiutava anche a gestire il gruppo in tutti gli aspetti.
«C’è poi un’altra cosa da considerare. In quei tempi i pretendenti alle grandi corse erano 5-6 e ci sta che alla fine si seguissero sempre gli stessi nomi. Non è come oggi che un “semi-sconosciuto” può vincere un monumento. Penso per esempio Van Baarle che vince la Roubaix o allo stesso Bettiol che ha conquistato un Fiandre senza essere tra i favoriti. Oggi sono tantissimi i corridori che possono vincere». Come a dire che la pressione è divisa su più atleti e in teoria incide meno sul singolo.
Modello Quick Step
Secondo Serge Parsani non sarà difficile gestire Remco anche dal punto di vista delle pressioni, specie quelle mediatiche. E ci spiega perché.
«Personalmente – riprende il tecnico – non conosco il ragazzo, ma parlando ogni tanto con Bramati, mi dice di un ragazzo con i piedi per terra, molto serio per la sua età.
«Certo, sicuramente sarà più difficile che allora ma è pur sempre in un team importante e poi Lefevere è una volpe e saprà come gestire la situazione. Fece così anche con Boonen. Di certo saprà proteggerlo dalle richieste di sponsor, feste, premiazioni… dovrebbe aiutarlo».
Il punto di Bortolami
E se questo è il punto di vista del direttore sportivo, sentiamo anche quello del corridore. Bortolami fece parte di quel mitico arrivo in parata nel velodromo di Roubaix proprio con Museeuw in testa.
«All’inizio – racconta Bortolami – eravamo solo Mapei Italia, poi Mapei Clas che era italo-spagnola e poi Mapei-Gb ed è lì che si è evoluta la situazione. Eravamo tre squadre, ma posso dire che mi sono trovato meglio con il gruppo belga, per così dire, con Museeuw e con il resto. C’era una buona affinità tra noi ragazzi e con lo staff dirigenziale.
«Facevo parte del terzetto entrato nel velodromo. Finimmo sui giornali e in tv per la questione del disaccordo. Un disaccordo sportivo perché tutti e tre volevamo vincere. Poi ci siamo accordati e per noi era finita lì. Tanto che negli anni a seguire mi sono trovato meglio quando avevo come compagni Museeuw, Ballerini, Tafi, Van Petegem… che quando ero capitano unico in un altra squadra».
Cultura ciclistica
Bortolami racconta che i giornalisti e i media già all’epoca erano molto presenti, ma conferma anche le parole di Parsani: i giornalisti c’erano ma con discrezione. E la stampa non era solo belga, ma anche italiana, spagnola e francese.
«Noi inoltre – riprende Bortolami – avevamo un addetto stampa che coordinava il tutto e riuscivamo a circoscrivere le richieste, come fanno oggi i team importanti. Il fatto che la stampa belga fosse accanita e partecipe è vero ma, ripeto, sempre con rispetto. E in Belgio oltre al calcio il ciclismo è sentito.
«Non credo che rispetto al passato ci siano enormi differenze, almeno in Belgio. Anche perché loro rispetto a noi hanno sempre avuto squadre WorldTour o comunque importantissime. Vivono molto ancora le radici. Prima delle grandi corse si sente parlare e si vedono filmati di Merckx, Maertens, De Vlaemick… E questo per me aiuta a creare una certa cultura, una cultura che da noi non c’è. Noi invece viviamo solo il presente o quel che può essere il futuro».
Museeuw e la pressione
Bortolami poi cambiò squadra per delle controversie con lo staff, soprattutto la parte italiana. Passò alla Festina. Aveva anche richieste dall’Olanda, ma preferì la Francia per questioni di lingua.
«Mi ero ambientato bene in Francia – racconta Gianluca – avevo compagni bravi ma non all’altezza di quelli della Mapei, quindi la pressione era tutta su di me e in certi tratti di Gand, Roubaix o Fiandre ritrovarsi da solo contro otto corridori della Mapei non era facile. Se li guardavi in faccia ognuno di loro diventava forte, facevano gruppo (proprio come la Quick Step adesso, ndr). E così quando andava bene portavo a casa un quinto posto.
«Johan con la pressione era molto bravo. Sin da giovane andava forte. Ha sempre gestito le cose da grande corridore e grande uomo, sia con noi compagni che con tutti gli altri.
«Per noi era come essere a scuola: in hotel ci si divertiva. I momenti difficili erano dovuti alla stanchezza e non ad altro. L’unica volta che abbiamo commentato dei titoli di giornali è stato proprio in occasione della tripletta alla Roubaix. Dopo quei giorni c’è stata una certa pressione. Ma questo si è avvertito più in Italia che in Belgio, perché alla fine i danneggiati eravamo noi. Loro avevano vinto».