«Bastone o carota? Nel mondo delle donne la carota funziona poco!». Quando parla si capisce subito che Fortunato Lacquaniti è piuttosto deciso. Il manager ci apre le porte della Alè BTC Ljublijana, l’unica squadra italiana WorldTour e come gestisce le sue dodici professioniste. Ma per capire quanto Lacquaniti sia centrale in questo progetto, partiamo dalla sua storia.
Fortunato, quando hai iniziato la sua carriera nel ciclismo femminile?
Nel 1992 con le junior della Top Girl Fassa Bortolo. Tre anni dopo vincemmo il primo mondiale juniores femminile con Linda Visentin a San Marino. Da lì è stato un crescendo. Subito dopo vennero gli anni della H2 con molte atlete straniere, soprattutto lituane: Pucinskaitė, Zabirova, Zililiute... in anni in cui praticamente dominava tutto la Sanson con la Luperini. Anche con quel gruppo vincemmo tre mondiali. Successivamente nel 2006 lavorai proprio con la Luperini e nel 2008 vinsi il Giro con lei.
Quando sei arrivato all’Alè?
Nel 2015. Mi chiamarono. Era una realtà piccola, ma aveva già una buona visibilità. Io venivo da team più complessi. Però era un bel progetto. C’erano da costruire le fondamenta a partire dallo staff (importantissimo) e dagli sponsor. Ecco, avere sponsor che sono anche proprietari del team è un bel vantaggio. Sta di fatto che all’inizio eravamo un massaggiatore, un meccanico e un direttore sportivo. Adesso ci sono 24 persone fisse. Ottenemmo le prime vittorie importanti con la Cucinotta e dal 2017 arrivarono le prime straniere, superando un retaggio tutto italiano. Già solo la lingua era un problema. Ma questa è stata una sfida tutta mia, nella quale sono stato supportato dalla nostra manager Alessia Piccolo. Siamo così diventati un riferimento. Siamo tra le prime cinque squadre al mondo. In pochissimi ci credevano.
Sembra che dal 2023 le squadre WorldTour non possano più tesserare atlete dei gruppi militari. Cosa cambierà per voi?
Non lo so onestamente. Già nel 2019 l’Uci impose questa regola, ma di fatto noi fummo i primi a tesserare atlete appartenenti a questi gruppi. Abbiamo sfruttato delle regole non chiare, l’Uci non poteva “superare” le leggi degli Stati che non riconoscevano il professionismo femminile. Alla fine anche l’Uci dovette ricredersi. E questa situazione non riguarda solo l’Italia, ma anche Francia Germania… Se dovesse passare la legge sul professionismo per le donne vedremo. Noi guardiamo sempre in là, ma da qui al 2023 tutto è in evoluzione.
Adesso siete in ritiro…
Siamo ad Altea, in Spagna e ci resteremo fino al 28 gennaio. E’ il nostro secondo ritiro e ci servirà per rifinire la preparazione in vista della prima gara del 7 febbraio sempre qui in Spagna. E’ bello perché tutto il mondo ciclistico è qui. Ci sono squadre nel nostro hotel e in quello di fronte. Sembra di essere ad un grande Giro.
Come state lavorando?
Nel primo ritiro abbiamo fatto soprattutto planning: calendari, visite mediche… Qui invece ci stiamo concentrando soprattutto sui test massimali. C’è anche qualche impegno (virtuale) con gli sponsor. E’ importante che le ragazze trovino coesione tra di loro, ne abbiamo quattro nuove su dodici.
Siete l’unico team italiano nel WT, avete questa percezione quando siete alle gare?
Si percepisce dalle strutture. Abbiamo un certo numero di mezzi, di personale e il livello delle cicliste mediamente è più alto. Ma ci sono anche squadre non WT che hanno ottime atlete. Una squadra WorldTour ha mediamente il triplo del budget di una Continental. La nostra fortuna è che già prima di diventare WT avevamo una buona struttura ed è stato un salto abbastanza normale.
Qual è il Dna del Lacquaniti ds e manager?
Dare il 101%, sempre. Se poi arriva la vittoria tanto meglio. E se non arriva si analizza perché. Provarci sempre. Mi piace fare la corsa e non subirla. Ed è così che l’anno scorso abbiamo ottenuto molte vittorie. Io sono un perfezionista. Ho il piano A, il piano B e volendo anche quello C. Pretendo molto, non le vittorie, quelle non le ho mai chieste alle mie atlete. Ma sono convinto che se lavori bene e dai il massimo le vittorie arrivino. Io comunque adesso ho un ruolo più manageriale, ci sono altri due ds, ma tutti condividiamo gli obiettivi e abbiamo lo stesso modo di vedere le cose.
Hai parlato di “fare la corsa”, hai due atlete che sono ideali per questo: Marta Bastianelli e Tatiana Guderzo…
Sono due atlete fondamentali. Marta è una leader, nella testa soprattutto. Quando attacca il numero vuol vincere. Ha un carattere estroverso e deciso. Tatiana l’ho voluta io. Ci siamo sempre sfiorati ma mai presi. Okay, ha un’età avanzata ma ci serviva una ragazza così, posto che ha ancora i numeri per fare grandi cose. Lei è un collante e sa svolgere questo ruolo.
E le altre?
Mavi Garcia, l’anno scorso è andata fortissimo. Veniva da un super team, la Movistar, nel quale non aveva mai vinto, con noi ci è riuscita. In salita è tra le top tre al mondo. Eugena Bujak è cresciuta molto e può essere un alter ego di Marta. E poi c’è Marlen Reusser, la svizzera. Questa ragazza va in bici da solo quattro anni ed è stata seconda nel mondiale a crono. Se dico che con lei pensiamo al podio olimpico non esagero. E poi ci sono tante altre giovani. Che possono crescere. Due anni fa Marta era da sola. Doveva arrangiarsi, adesso c’è chi le può dare supporto e magari lei stessa può correre con più tranquillità.
Quindi, Lacquaniti è da bastone o da carota?
Come detto la carota funziona poco. Per me deve esserci rispetto reciproco ma sono pagato per prendere decisioni. Non dico che debba essere autoritario, ma autorevole. Mi dicono che sono troppo duro, ma io devo fare le scelte e magari non sempre sono simpatico. Io non chiedo mai alle mie atlete se sono allenate o no. Sono professioniste e dò per scontato che lo facciano. Tanto poi a controllare i dati ci pensa il coach.