C’è quella frase detta da un diesse WorldTour a Paolo Rosola durante la Adriatica Ionica Race che risuona nella testa. «Io ho corridori che guadagnano 300 mila euro all’anno e sono svogliati, quelli là non prendono lo stipendio da tre mesi eppure gli leggi in faccia la rabbia che serve per fare i corridori».
E’ solo un fatto di rabbia? Anni fa, in un’intervista parlando di Pozzato, Cancellara disse che Pippo faceva le cose migliori quando era arrabbiato e aveva qualcosa da dimostrare, per cui si trattava di una spinta effimera. Allora che cosa ha animato finora i ragazzi della Gazprom-RusVelo?
Lo abbiamo chiesto a Marina Romoli, prima atleta e laureata in psicologia. E lei ha proposto di aggiungere all’incontro anche Giovanni Carboni, come lei marchigiano e coinvolto direttamente nel discorso. E’ nata così una spettacolare tavola rotonda, che ha permesso di stare alla larga dal luogo comune e ha fornito la risposta alle domande. Chi scrive è rimasto a lungo in un angolo, lasciando loro il microfono.
Per rendere la lettura più avegole, abbiamo deciso di spezzare l’articolo in due parti. La seconda sarà pubblicata domani, ugualmente alle 9,30.


Teide, prima l’incredulità
ROMOLI: «Che cosa hai provato all’inizio, quando tutto è cominciato e non potevi più correre? Era rabbia o delusione? Prima di tutto vorrei capire da dove sei partito, per arrivare a dove sei adesso…».
CARBONI: «E’ stata una situazione molto strana. Eravamo in una squadra che ci metteva a disposizione il 100 per cento. Quando è successo tutto, ero sul Teide assieme a Conci e Zakarin. Erano già due settimane, una cosa che non avevo mai fatto prima. I dati di allenamento erano notevoli e mi dicevo ogni giorno: “Vedi che funziona?”. Avevo la testa alla Tirreno-Adriatico e al Catalunya. Ero in condizione di massimo benessere… Da un giorno all’altro, di colpo, sono passato da questi pensieri a non sapere cosa fare. Ero incredulo, mi sembrava una cosa assurda. Ho passato le prime due settimane a pensare che in un modo o nell’altro si sarebbe risolta. Poi di colpo ho iniziato a rendermi conto di quello che era veramente, che non sarebbe ripartito proprio niente».
ROMOLI: «Quindi sei passato da uno stato di confusione, a una fase di grandi domande…».
CARBONI: «Di mio sono sempre stato ottimista. All’inizio c’era lo stato di confusione, ma provavo a pensare positivo… ».


Tirreno, i giorni del crollo
ROMOLI: «Qual è stato il momento in cui hai capito che la situazione non si sarebbe risolta cosi in fretta?».
CARBONI: «La settimana della Tirreno-Adriatico, mentre gli altri correvano e noi siamo rimasti fuori. Era intorno al 12 di marzo. Quella settimana lì mi sono anche ammalato, sono stato costretto a rimanere fermo ed è stato il momento più basso di questi cinque anni da professionista. Mi sono reso conto che la guerra non passava. Dicevano tutti che doveva finire in fretta, invece non passava. Quando ho ripreso ad andare in bici, la condizione è passata da quella bella del Teide a sensazioni stranissime. Sono state due settimane difficili. Ho provato il vero sconforto, da chiedersi perché andassi in bici e che senso avesse. E perché fossi finito in una situazione del genere. Capitano tutte a me…».
ROMOLI: «Pensi di esserti ammalato anche per un fatto psicologico, per tutte le situazioni che stavi affrontando?».
CARBONI: «Secondo me sì, è stato un insieme di cose. Quella settimana nelle Marche era freddissimo e io venivo dal Teide dove ero caldo. Ho fatto qualche giorno senza allenarmi troppo, poi mi sono detto che fosse ora di ricominciare, perché di sicuro sarei tornato a correre. Così ho fatto un paio di allenamenti lunghi, anche se non c’era bisogno, ma per scaricare il nervoso. Un giorno ho preso un’oretta di acqua, che ci saranno stati 4 gradi e due giorni dopo mi sono ammalato. Era pieno inverno, eravamo tirati e magri, le difese immunitarie basse. Nervoso e stress in aggiunta ed è stato tutto un insieme».


ROMOLI: «Quindi nel momento in cui non hai potuto correre la Tirreno-Adriatico che era il tuo primo obiettivo vero di stagione, hai realizzato la situazione che è ancora attuale. In quel momento eri più arrabbiato o deluso? Riesci a fare la distinzione?».
CARBONI: «Tanta delusione. Mi sono ritrovato dalle stelle alle stalle senza poterci fare niente. In bici puoi sfogare e trasformare la rabbia in una spinta positiva. Ma quando non corri e hai davanti una situazione grande come una guerra, con chi ti arrabbi? Con le istituzioni è una battaglia persa».


Sicilia, inizia la reazione
ROMOLI: «Come hai fatto a trasformare il negativo in positivo, visto che poi sei arrivato alla vittoria? Come hai trasformato la delusione in voglia di riscatto? Hai avuto l’aiuto di qualcuno a livello psicologico? Hai parlato con i tuoi compagni? Quando c’è stata la svolta e ti sei detto: adesso conosco il problema, devo trovare la soluzione?».
CARBONI: «In un primo tempo, i familiari, gli amici e anche il fisioterapista mi hanno consigliato di rivolgermi a uno psicologo per farmi ragionare in maniera diversa. Io ho sempre pensato che il mental coach sia importante, ma siccome sono testardo, ho deciso che dovevo farcela da solo. Ho fatto la Coppi e Bartali, ho tenuto duro, ma capivo che le sensazioni non fossero le migliori. Stavo bene, ma anche al Sicilia ero strano, sentivo che mancava qualcosa. A quel punto ho tirato una riga. Ho analizzato il fatto che sono sempre andato forte dopo il Giro d’Italia. Ho guardato che corse potevo fare e ho visto che a giugno c’era la possibilità di fare l’Adriatica Ionica e il campionato italiano e mi sono detto: non posso mollare adesso. Era aprile, mancava un mese e mezzo. Sapevo cosa fare. Ho trasformato la delusione in razionalità».


Una bolla di condizioni favorevoli
ROMOLI: «Ti sei fissato degli obiettivi intermedi…»
CARBONI: «Avevo uno spazio temporale in cui lavorare. Avevo la sicurezza degli anni passati. Mentalmente ero sicuro che in un mese sarei tornato ad andare forte e ho cominciato a lavorare, non pensando più alla parte burocratica. Non ho più pensato ad Accpi e CPA, tante parole e pochi fatti, ho iniziato a essere concreto. Con l’aiuto di Marco Benfatto e Maurizio Mazzoleni che ci hanno seguito per la preparazione. Ha aiutato tanto anche il fatto di esserci legati tanto con Scaroni e Malucelli. Soprattutto con “Malu” ho condiviso tanti allenamenti. Tutto questo ha creato una bolla di condizioni favorevoli che dopo due mesi senza corse ci ha portato a essere in condizione alla Adriatica Ionica, lavorando a casa da soli. Perché un conto è essere lontani dalle corse, ma in ritiro con la squadra. Un altro è essere a casa da soli».
bici.PRO: «Nei giorni della Tirreno arrivò però la convocazione in nazionale. Quanto ha contato la possibilità di correre? E quanto ha contato il rapporto che si è creato fra voi, l’essere squadra senza avere una squadra?».
CARBONI: «Secondo me la differenza per tutti quanti l’ha fatta il vedere che lavorando bene, si arrivava a un risultato. Per chi corre, il risultato ripaga del lavoro fatto. E se ci arrivava uno di noi, poteva arrivarci anche l’altro. Si è creata questa forza di squadra che ti stimola. Vedere che tutti eravamo nella stessa barca e remavamo nella stessa direzione».


La fiducia di Bennati
ROMOLI: «E’ stato importante che la nazionale e Bennati abbiano creduto in voi e vi abbiano fatto correre. Non era una squadra qualsiasi, avete corso con la maglia della nazionale. E io so quanto quella maglia faccia a livello morale e di responsabilità. C’era stato qualcuno che credeva in voi…».
CARBONI: «Quella maglia e vedere Bennati e tutto lo staff lì per noi, ci ha reso squadra. E’ stato il punto che ci ha fatto svoltare e ci ha reso squadra più di quello che eravamo. Forse con la Gazprom avremmo potuto ottenere più risultati, ma saremmo stati meno squadra. La nazionale ci ha reso una squadra che ci ha legato e ci lega tutt’ora».
La seconda parte dell’articolo sarà pubblicata domani, ugualmente alle 9,30